C’è una parola che si è ricavata un grande spazio nella nostra quotidianità e chi non lo avesse avvertito prima ha avuto modo di accorgersene nei giorni a ridosso del Capodanno. Cos’hanno in comune le zone rosse di Piantedosi e gli attentati terroristici di Magdeburgo o New Orleans; la tragedia dei due alpinisti “esperti” sul Gran Sasso con la storica pista “Stelvio” (contestata dopo la catena di incidenti in occasione della prova di Coppa del Mondo di sci alpino) o con il 31 dicembre, data di scadenza dell’adempimento relativo al safeguarding officer per tutte le associazioni sportive italiane?

Dal terrorismo all’incidente, dalla massima intenzionalità all’assoluta imprevedibilità, il filo conduttore tra questi estremi è la parola “sicurezza” con le molte altre che corrispondono alle sfumature tra essi e che talvolta usiamo come sinonimi sebbene non lo siano affatto: incolumità, salvaguardia, garanzia, protezione.

Se da millenni l’uomo si interroga sulla natura complessa di questo concetto, sul suo rapporto con la felicità, con la giustizia, con la politica, oggi sembra diventata un’ossessione collettiva, un tormento da affrontare con strategie almeno apparentemente in contrasto, piuttosto che in sinergia, con l’approccio più filosofico degli antichi che cercavano la sicurezza anche nella virtù e nella saggezza. Dietro questa parola così presente ormai nella nostra vita ci sono bisogni diversi e, probabilmente, molte illusioni. Anche nello sport.

L’etimologia dal latino securitas composto da sine (assenza) e curae (cura) ci spiega che in origine il significato corrispondeva all’assenza di preoccupazioni. Se in principio rappresentava più uno stato d’animo che una condizione oggettiva, attraverso i secoli ha assunto i contorni di un apparato volto a controllare e gestire i rischi.

Da valore individuale a diritto fondamentale (Art.3 nella Dichiarazione universale dei diritti umani, del 1948) il percorso ha seguito la strada maestra ma, da lì in poi, si è frammentato in un labirinto di sentieri diventando un bisogno da soddisfare in maniera sempre più rigorosa in ogni ambito dell’articolata società moderna.

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Il controllo

Un dedalo di misure di controllo del rischio in cui, paradossalmente, “si corre il rischio" di affidarsi esclusivamente alle procedure esterne (rese possibili dal formidabile progresso tecnologico) perdendo di vista l’umanità o forse solo il buon senso.

I continui incidenti sul lavoro evidenziano che non bastano le leggi, serve la volontà e la capacità di interpretarle, servono formazione, esperienza, attenzione, controlli; un approccio multidimensionale che, comunque, mai potrà escludere totalmente ciò che è controllabile sì ma non eliminabile e che si chiama errore (e poco importa che sia di sistema, tecnologico o umano, da parte di chi dovrebbe prevenirlo o di chi ne è vittima).

E tantomeno potrà prevenire ciò che ancora non conosciamo, l’ignoto. Una lunga premessa per una grande domanda: fino a che punto la particolare natura dello sport si concilia con la possibilità di renderlo sicuro e completamente controllabile?

La sicurezza nello sport agonistico di alto livello ha l’arduo compito di prevedere l’imprevedibile: deve creare un ambiente protetto in cui però gli atleti, nell’esercizio delle loro prestazioni, sono chiamati a superare i propri limiti. Ad esempio, se nel 1986 venne cambiato il regolamento nella specialità del lancio del giavellotto, spostando il baricentro dell’attrezzo per ridurne la traiettoria, non fu per lungimiranza bensì per un lancio di oltre cento metri conficcatosi tremendamente vicino alla tribuna degli spettatori, miracolosamente senza conseguenze.

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I dilettanti

Tuttavia anche garantire maggiori protezioni può essere parte del problema: ne sono un esempio le corse ciclistiche professionistiche caratterizzate sempre più frequentemente da massicce cadute. Le bici moderne leggere ma stabili e con freni a disco, consentono velocità molto più alte e migliore controllo del mezzo. Nella ricerca del limite però, ciò si traduce per gli atleti in una ulteriore opportunità: diminuire il tempo di frenata è un vantaggio ma significa pure ridurre a zero lo spazio per eventuali imprevisti.

La sicurezza, anche nello sport agonistico ha un costo in termini economici, di risorse umane, di tempo, di competenze maturate, di esperienza. E se le gare delle massime categorie godono, tendenzialmente dell’attenzione ad ogni dettaglio a cura dei migliori esperti, non altrettanto accade per le categorie inferiori o per le sessioni di allenamento che occupano un tempo decisamente maggiore e quindi, statisticamente, più critico.

Questo punto interseca perplessità col tema del professionismo e le (non a caso definite) tutele di cui gli atleti non dispongono così come purtroppo ancora, molti lavoratori dello sport. Al di fuori dei gruppi sportivi militari, gli atleti professionisti tutelati con contratti che garantiscano i diritti minimi del lavoratore, tra cui la previdenza infortuni e l’assistenza sanitaria, sono pressocché inesistenti. E le assicurazioni private per coprire attività (anche queste, non a caso) definite ad alto rischio, come quelle dell’agonista, sono proibitive o capestro.

In parallelo si chiede allo sport di dotarsi di tecnici e esperti per prevenire i rischi sempre più complessi ma di farlo a titolo di volontariato, nel tempo libero. E se così non fosse, quante gare verrebbero organizzate per le categorie (la prevalenza) che sono al di fuori delle logiche commerciali dello sport spettacolo?

La tutela dei minori

Anche scendendo verso la base della piramide dello sport, in quella zona che riguarda tutti, agonisti e non agonisti, le considerazioni precedenti hanno una loro ricaduta più o meno forte. E proprio sulla base, più ampia e giovane, c’è un aspetto della sicurezza che solo ora ha trovato attenzione con l’introduzione del safeguarding officer: l’obbligo per ogni club, di una figura terza che sorvegli la sicurezza in termini di safety, quindi di integrità della persona e dei minori in particolare, rispetto a comportamenti inappropriati sia dal punto di vista relazionale che metodologico, è un enorme passo in avanti in termini di consapevolezza ma non farà certo la differenza, finché continuerà ad essere una mera procedura.

Una particolare prospettiva da cui guardare alla sicurezza nello sport per tutti ce la offrono le discipline che prevedono il confronto con la natura. Non sono gli agonisti delle gare ma sono i protagonisti delle sfide con il mare, il cielo, le montagne.

Gli incidenti in questo tipo di sport sono spesso effetti di trappole euristiche, quelle che la psicologia ci spiega come scorciatoie mentali che utilizziamo quotidianamente per semplificare decisioni complesse e che in condizioni estreme di rischio alla ricerca del limite assoluto o personale, in cui il margine di errore è molto basso o nullo, possono risultare letali.

La sicurezza non si compra insieme agli apparecchi, ai dispositivi, alle attrezzature ma si guadagna con una valutazione del rischio razionale e, talvolta, con la capacità di rinunciare.

Perché, alla fine, anche nello sport, la sicurezza assomiglia più a un viaggio continuo tra l’esterno e l’interno di sé stessi o forse a un esercizio di faticoso allineamento tra la fiducia in sé, il sentirsi al sicuro ed esserlo veramente.

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