Estensione del diritto allo studio o immersione totale nel significato di performare? Ridurre il concetto di doppia carriera al supporto all’atleta di alto livello, nel conciliare sport e formazione, è una semplificazione che trascura alcuni aspetti importanti. Perciò è quasi d’obbligo tornare ancora sull’argomento per liberarlo dai confini dell’esperienza di nicchia, leggendolo attraverso la chiave di ciò che è di interesse generale.

Perché se la dual career è un fatto che riguarda un microcosmo, è vero anche che ha in sé elementi che caratterizzano le sfide moderne cui l’Occidente ci chiama. Prove basate sulla centralità della performance come imperativo sociale al punto da qualificare l’epoca che stiamo vivendo.

Nel libro La società della prestazione gli autori, Anna Simone e Federico Chicchi, spiegano che la nostra società è sempre più dominata dalla necessità di competere nella ricerca di efficienza e successo. Le persone esistono in quanto soggetti performanti, costrette continuamente a dimostrare il proprio valore attraverso risultati tangibili, solidi che si scontrano con la fluidità e precarietà del mercato del lavoro.

E costruire la propria carriera professionale assomiglia sempre più all’obiettivo a cui dedicare la vita intera piuttosto che a un prerequisito per viverla. Uno sforzo di adattabilità e un impegno continuo che richiede energia e grande consapevolezza dei propri mezzi.

In questo contesto, la persona che lascia il ruolo di atleta di alto livello per entrare in un altro, in qualsiasi altro, si troverà a beneficiare del vantaggio maturato dentro l’abitudine alle maglie strette di classifiche e prestazioni: un vissuto che porta con sé sottoforma di competenze trasversali, imprescindibili per ciò che la modernità chiede.

Il segreto sta nel non bruciarsi prima e nel farsi trovare pronti all’appuntamento con la nuova fase della vita, forti di competenze specifiche da spendere. La doppia carriera non viaggia su binari paralleli ma gira in un circolo virtuoso: una spirale di crescita in cui l’agonismo educa al post agonismo, lo studio aiuta a gestire meglio la carriera sportiva e viceversa.

Il duplice impegno non dimezza le risorse, piuttosto le amplifica. Il multitasking, condizione che ormai riteniamo normale, tanto nel privato quanto nella professione, non va infatti confuso con il fare più cose ma una per volta. L’equilibrio tra il multi e il mono-tasking è il segreto affinché l’impegno su più fronti sia un processo dinamico e interconnesso, in cui progressi e esperienze in un ambito alimentino e potenzino quelli nell’altro.

La conciliazione dei due percorsi è un esercizio con molte ricadute positive in termini di rinforzo delle life skills (tra cui la gestione del tempo, il controllo dell’ansia, la pianificazione, il problem solving, la comunicazione, la capacità di lavorare di squadra, la resilienza) tutte abilità già ampiamente sollecitate dall’attività agonistica. Quello di cui però si parla meno, è quanto l’applicazione alla carriera accademica possa apportare beneficio anche alla capacità di performare meglio nello sport.

La teoria dell’autodeterminazione

Ci sono conoscenze, apprese nel percorso di studi, che possono contribuire a capire e organizzare la propria carriera sportiva. Tuttavia, ciò che aleggia al di sopra di tutto è il beneficio che deriva dalla possibilità di scegliere. La self-determination theory (teoria dell’autodeterminazione o SDT) dimostra che la motivazione aumenta quando si ha il controllo sulle proprie azioni.

Studiare o comunque investire in un interesse diverso, sebbene parallelo o sinergico al principale, accresce la percezione di competenza su cui immaginare il proprio futuro. Si crea una condizione che rinforza l’autonomia decisionale e favorisce relazioni e interazioni con altri ambienti e persone.

La SDT, indagata in vari contesti tra cui l’educazione, il lavoro e lo sport, ci spiega che avere alternative e migliorando la motivazione, la soddisfazione per la propria vita cresce e, con essa, la capacità di porsi e raggiungere obiettivi realistici. Come a dire, qualsiasi cosa tu faccia nella vita, se vuoi farla al meglio, non la devi investire del carattere di esclusività.

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Gli esempi

Ci sono tante testimonianze da parte di campioni che confermano la teoria. Daniele Garozzo e Diana Bianchedi, campioni olimpici di scherma e laureati in medicina.

L’equipaggio della vela d’oro Banti-Tita, entrambi laureati, in ingegneria informatica lui e, con lode in lingue orientali lei. E ancora Niccolò Campriani, pluricampione olimpico nel tiro a volo, laureato in ingegneria gestionale e Tania Di Mario, oro ad Atene col setterosa, presidente dell’Orizzonte Catania e laureata in economia e commercio. Solo per citare alcuni nomi di una squadra di laureati e laureandi sempre più corposa, saggia e fulgido esempio di doppia carriera.

Coltivare un’alternativa è più facile se l’impegno non si connota come iperspecializzante precocemente e ipercalendarizzato, come di fatto solo lo sport agonistico sa essere. Su queste due principali caratteristiche poggiano infatti le ragioni che giustificano la necessità dei programmi di doppia carriera: il fine è evitare che lo sport sia un laboratorio di disadattamento in antitesi coi principi educativi che gli sono universalmente riconosciuti.

Le linee guida UE prima, le iniziative governative poi e del network UNISPORT di recente, stanno uniformando le proposte in territorio nazionale e contribuendo a rendere più efficaci gli interventi. Tuttavia formulare offerte valide è complicato a causa dello svolgersi temporale della carriera agonistica in relazione allo sviluppo delle altre dimensioni fondamentali per la maturità della persona (psicosociale, accademica, vocazionale, di autonomia economica).

Uno strumento di crescita

Dimensioni scandite da tappe non sempre allineate tra loro e tantomeno con la maturità atletica, ricercata sempre più anticipatamente. Una visione olistica riassunta in un modello descrittivo (noto col nome dei suoi autori, Wyllemann e Lavallee) che chiama a supporto della doppia carriera differenti politiche e diversi attori, con attenzione particolare rivolta non solo al post agonismo ma anche a tutti i passaggi e cambiamenti attraverso cui la giovane e il giovane atleta si trovano a crescere performando.

Quello rivolto alla doppia carriera è dunque uno degli sforzi prioritari affinché lo sport sia davvero uno strumento di crescita personale e sociale, per almeno tre buone ragioni. La prima è di coerenza: il valore riconosciuto allo sport non può convivere con un modello organizzativo che compromette la costruzione del futuro post agonistico degli atleti, relegandoli alla sopravvivenza o ad un ruolo in cui non possano rappresentare un valore aggiunto per la comunità.

La seconda riguarda la capacità del mondo sportivo di assorbire coloro che sono stati i suoi protagonisti, attualmente assestata su percentuali molto basse: un ambiente che rinuncia al contributo di coloro che lo hanno valorizzato, rinuncia a un patrimonio di crescita e opportunità.

Infine se, come dicono i sociologi, viviamo nella società della prestazione, allargare la doppia carriera ad un percorso più inclusivo, più fruibile anche da coloro che non necessariamente saranno campioni, aiuterà ad avere cittadini più capaci nell’affrontare le sfide della modernità.

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