Brama accosta il suo monopattino vicino al furgone. Allunga le mani per prendere un gilet catarifrangente di colore rosso con il logo della Cgil disegnato sul retro, un cappello, un brick d’acqua e un opuscolo in lingua inglese dove sono elencati i suoi diritti di lavoratore agricolo. Su queste pagine sono segnati i numeri di telefono e l’indirizzo della sede della Flai-Cgil di Verona. Numeri da contattare per trovare una via di uscita dalle tenaglie dello sfruttamento.

Prima di andare via si intrattiene per pochi secondi: il suo turno nei campi sta per iniziare e non può ritardare. Racconta che ha vent’anni ed è originario del Gambia, da otto mesi si trova in Italia. «Dal Gambia al Senegal e poi a Milano», dice in un inglese mimando il gesto di un aereo. Ha seguito la strada tracciata dal decreto flussi. Il sistema di nulla osta lavorativo con cui il governo Meloni ha previsto l’ingresso nel paese di centinaia di migliaia di lavoratori. Un sistema, però, finito sotto la lente delle procure antimafia per via delle infiltrazioni sulla criminalità organizzata tanto da far preoccupare anche il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega ai servizi, Alfredo Mantovano.

A Zevio, in provincia di Verona, Brama raccoglie lamponi e fragole. Oltre a Brama in pochi minuti passano davanti al furgoncino della Cgil una decina di ragazzi della stessa nazionalità, sono diretti verso lo stesso campo agricolo, a bordo di bici e monopattini. In pochi secondi spariscono tutti prima che qualcuno li veda parlare con i ragazzi e le ragazze della Brigata del lavoro del sindacato. La squadra anti caporali è soddisfatta: «È stata una mattinata proficua dopo giorni di pioggia».

In meno di mezz’ora hanno intercettato circa venti braccianti in un’area geografica, quella del veronese, che quest’estate è stata al centro di diverse inchieste contro il caporalato. Lo scorso 13 luglio sono stati arrestati due caporali indiani per aver ridotto in schiavitù 33 loro connazionali. Nel trevigiano, un’altra operazione ha identificato altri 13 braccianti nelle stesse condizioni. La situazione è drammatica.

Da luglio la Flai Cgil ha presentato oltre 15 denunce, sintomo di un’area diventata epicentro di un sistema di lavoro basato sullo sfruttamento, sull’intermediazione illecita e sulla riduzione in schiavitù dei braccianti. Per questo motivo, le Brigate del lavoro della Flai-Cgil hanno lanciato una cinque giorni di sindacato di strada. È la prima volta che accade tra questi campi e la loro presenza non è passata inosservata ai produttori.

Il mercato ortofrutticolo di Verona è tra i più importanti d’Italia, ma da tempo nel territorio è stata riscontrata la presenza di cosche di ’ndrangheta legate alla piana di Gioia Tauro e alla Locride, che gestiscono affari milionari soprattutto nel settore della logistica. Business assai remunerativo è anche quello dei caporali, sulla pelle dei braccianti.

Secondo alcuni studi di categoria, in tutto il Veneto il valore assoluto del lavoro irregolare ammonta a 4.6 miliardi di euro. E l’epicentro di queste irregolarità è nel veronese, un territorio strategico. Da qui in poco tempo ci si sposta a sud verso gli allevamenti suini nel Modenese, a nord nei vigneti del Trentino, a ovest nel mantovano e a est si va verso i campi agricoli di Padova, Vicenza e Ferrara.

I finti appalti

La brigata del lavoro della Flai-Cgil durante la cinque giorni di sindacato di strada. Foto: Flai-Cgil

Negli anni il caporalato è mutato, per sfuggire all’azione repressiva introdotta dalla legge 199 del 2016 che punisce anche l’imprenditore che si avvale della manodopera sfruttata. Per aggirare la norma è emerso un nuovo sistema caratterizzato da una sorta di “appalto mascherato”. «L’imprenditore affitta i suoi campi alla cooperativa e agli intermediari.

Dopo la stagione, il raccolto viene venduto tramite un giro di fatture false e un prezzo concordato in precedenza allo stesso imprenditore che aveva messo i campi in affitto», spiega Giosuè Mattei, segretario generale della Flai-Cgil Veneto. Così facendo, il titolare dei terreni è esonerato dai reati commessi da chi gestisce il campo. Un sistema che complica le indagini degli inquirenti.

Decreto flussi

Campi di lavoro nel veronese. Foto: Youssef Hassan Holgado

I braccianti arrivano in Italia attraverso canali irregolari e regolari e il sistema del decreto flussi è la trappola perfetta che arricchisce i caporali e intrappola i lavoratori. Con i nulla osta lavorativi nel 2023 sono entrate in Italia circa 136mila persone, 151mila in questo 2024. Ma il sistema si aggira con facilità. Dalle indagini emerge che il caporale chiede alle aziende di fare richiesta per ottenere i dipendenti, in cambio di 2-3mila euro a lavoratore. «In questo caso l’imprenditore agricolo si intasca i soldi e fa la richiesta di manodopera ma poi non se ne cura. Una volta in Italia, i migranti non trovano nessuno ad accoglierli e in otto giorni – tempo in cui va formalizzato il contratto di lavoro – diventano fantasmi», spiega Mattei.

Nel veronese le vittime di questo sistema sono soprattutto indiane. Il meccanismo funziona così: ci sono due intermediari, uno in India e uno in Italia che per fare richiesta di nulla osta chiedono in cambio migliaia di euro (dai 10 ai 20mila euro per persona). Una volta in Italia il contratto di lavoro non viene formalizzato nelle prefetture e i lavoratori vengono mandati in altri campi, entrando nel giro dello sfruttamento.

Vista la loro irregolarità, i caporali chiedono 5mila euro a bracciante con la promessa di un permesso di soggiorno che non otterranno mai. «C’è chi si è affidato agli strozzini, chi ha chiesto un prestito alla banca in India per saldare il debito», spiega Mattei.

«I caporali proliferano grazie alla Bossi-Fini. Si fanno pagare dando ai lavoratori 5 euro l’ora o facendoli lavorare gratis». Uscire dal giro è difficile. Chi denuncia subisce violenze e intimidazioni: alcuni di loro hanno raccontato di essere stati minacciati armi in pugno. «Su 100 braccianti indiani che abbiamo salvato, circa 80-90 provengono da Caserta e Napoli. Cosa succede in quelle prefetture? La stessa cosa è riscontrata dai colleghi che lavorano a Latina. Stiamo osservando una triangolazione tra Campania, Lazio e Veneto. I braccianti sono tutti passati dall’Agro pontino», dice Mattei.

Le brigate del lavoro

Una brigata del lavoro della Flai-Cgil durante la cinque giorni di sindacato di strada. Foto: Youssef Hassan Holgado

È ancora buio quando le brigate della Cgil lasciano il parcheggio dell’hotel e si dirigono a gruppi verso i campi di lavoro, nella speranza di incontrare i braccianti all’inizio del turno. Per cinque giorni le brigate hanno attraversato i distretti di Bardolino, Lugana, Soave e Valpolicella. Un territorio dove cresce uva pregiata, che da vita al rinomato vino della Valpolicella, incluso l’Amarone. Qui raccolgono anche meloni, zucchine, radicchio e pomodori. Nelle brigate ci sono anche due sindacaliste che conoscono otto lingue, figure indispensabili visto che la maggior parte dei braccianti non parla l’italiano.

Al termine di ogni uscita la brigata compila un diario di bordo, in cui registra il numero dei lavoratori incontrati, la loro nazionalità e le criticità rilevate. Una mappatura utile per analizzare il fenomeno. Un lavoro prezioso che ha portato a una serie di esposti dai quali sono partite indagini come quella avvenuta a luglio nel trevigiano. «In quel gruppo abbiamo trovato anche persone laureate in biologia e scienze politiche ridotte in schiavitù», racconta Mattei.

Vivevano in un casolare diventato una discarica di Monster, la bevanda energetica fornita dai caporali per mascherare le fatiche del lavoro dei braccianti. «C’è una malattia innestata all’interno del Dna del settore agricolo che lo ha modificato e ha normalizzato la condizione di schiavitù», concludeil sindcalista. Un sistema che causa morte, come accaduto a Latina a Satnam Singh lasciato a dissanguarsi dopo che un macchinario gli ha tranciato un braccio.

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