Le aggressioni al personale sanitario sono sempre più frequenti e, negli ultimi cinque anni, sono aumentate del 38 per cento. Nel 2023 se ne sono registrate 18mila e le più colpite sono state le donne. Il 12 marzo, in occasione della Giornata nazionale di educazione e prevenzione contro la violenza nei confronti degli operatori sanitari, sono stati stanziati da una delibera di giunta della regione Veneto quattro milioni di euro in strumenti tecnologici e tutela delle aggressioni.

A 7mila operatori sanitari, su 64mila presenti sul territorio, verranno affidate bodycam e smart watch. Se, su carta, questi strumenti serviranno a “proteggere” gli operatori sanitari sul territorio veneto - mandando sms, registrando e attivando chiamate di aiuto - sanitarie e sanitari non sono dello stesso avviso.

Per il pediatra del pronto soccorso pediatrico di Verona, Daniele Cappelletto, «è una misura che non ha nessuna ricaduta positiva sui medici e sui problemi dei pazienti. Vengono spesi soldi pubblici senza interpellare chi lavora negli ospedali».

Aggressioni: donne, le più colpite

Dagli ultimi report dell’Azienda ospedaliera di Padova sono 262 le aggressioni avvenute ai danni di personale sanitario nel 2024, dieci in meno rispetto all’anno precedente. Delle 262 aggressioni, 179 si sono fermate alle parole, mentre 83 sono state anche fisiche e hanno colpito soprattutto le donne.

I reparti dove più sono avvenute le aggressioni sono stati la psichiatria, i pronto soccorso e la chirurgia colon rettale. La dottoressa Beatrice Sgorbissa operava come medica di continuità assistenziale (guardia medica) a Padova. Ha subito aggressioni verbali e minacce da parte di una coppia che esigeva «una prestazione sanitaria per la quale avevo indicato un altro tipo di approccio terapeutico».

La coppia è rimasta fuori dalla porta dell’ambulatorio di guardia «per ore, con fare minaccioso, continuando ad alzare la voce e a pretendere la prestazione che volevano loro. È stata un’esperienza molto brutta. Sentivo di non avere gli strumenti per gestire quella situazione. Mi sono sentita molto sola, nella vulnerabilità della violenza», racconta Sgorbissa.

Dopo aver contattato le forze dell’ordine la situazione è addirittura peggiorata: «Gli agenti mi hanno caldamente invitata ad accontentare i pazienti per mettere fine alla tensione».

Un problema diffuso in tutta Italia

Il tema del contrasto alla violenza nel mondo degli operatori della salute tocca l’intera nazione. «Lo stanziamento di risorse destinate a misure di deterrenza possono essere un valido ausilio per rispondere al fenomeno, ma non per prevenirlo o risolverlo», sostiene Pierino Di Silverio, segretario nazionale Anaao-Assomed. La radice del problema, aggiunge, è la difficoltà di accesso alle cure, «dovuta a carenza di personale e alla cattiva organizzazione della presa in cura».

Sarebbe molto più utile stanziare soldi «per aumentare le retribuzioni e migliorare le condizioni di lavoro del personale e riorganizzare la presa in cura del paziente per ridurre accessi impropri negli ospedali, che aumentano i tempi di attesa».

Una specializzanda di anestesia e rianimazione, attivista del Laboratorio di salute popolare (Lsp) di Bologna, spiega che la misura attuata in Veneto non avrà effetti di reale deterrenza nei confronti delle aggressioni. La violenza verso il personale sanitario, infatti, «deriva dallo stress cui è sottoposto il sistema nel suo complesso e coinvolge tanto la cittadinanza quanto gli operatori». L’aggressività, espressa sotto forma di violenza, non è altro che «la canalizzazione che trova l’espressione di bisogni inascoltati».

Questa frustrazione è espressa anche dal personale sanitario, «nel non avere mezzi adeguati per rispondere alle richieste dei pazienti». Per l'anestesista «le responsabilità collettive e politiche nella tutela dei diritti e del nostro sistema universalistico si fanno cadere solo a livello individuale».

Le strategie di contrasto alla violenza

La dottoressa Sgorbissa racconta che non bastano «dispositivi che hanno l’obiettivo di intervenire solo nel momento in cui si verifica l’aggressione. Sarebbe già troppo tardi». E vorrebbe che si agisse «rafforzando la medicina territoriale in modo da distribuire servizi che possano rispondere prontamente ai bisogni della popolazione».

Servirebbe incrementare percorsi di formazione «per la gestione delle conflittualità e per la comunicazione. Formazioni che sappiano colmare i gap tra le aspettative dei pazienti e la concreta possibilità dei sanitari di erogare un servizio». Bisognerebbe anche «condurre delle campagne di sensibilizzazione e di informazione rispetto al corretto utilizzo dei servizi sanitari, coinvolgendo attivamente i medici di medicina generale».

La riduzione delle liste d’attesa e il miglioramento dell’organizzazione del servizio di primo soccorso, inoltre, potrebbero anche condurre «a una diminuzione della frustrazione assistenziale». Anche per l’anestesista del Lsp di Bologna è necessario ristrutturare il sistema sanitario pubblico: «Assumendo più personale, incentivando il lavoro d’equipe, investendo in un utilizzo funzionale della tecnologia ma soprattutto ponendo al centro un modello di analisi biopsicosociale che miri a individuare e sanare le cause dell’assenza di salute».

È dunque una questione di scelte politiche: «Il lavoro che deve essere fatto riguarda la tutela del welfare e l’ampliamento dei diritti. Controllo e punizione alzano il livello del conflitto a fronte di un dispendio inutile di risorse».

© Riproduzione riservata