La notte tra il 18 e il 19 settembre 2017 Sebastiano Crimi è stato svegliato da alcune urla provenienti dalla Guardia medica del suo paese, Trecastagni, che ha sede proprio di fronte a casa sua. L’uomo si era alzato ed era uscito dal balcone del suo appartamento quando aveva visto uscire di corsa dall’ambulatorio una donna in camice e un uomo. La dottoressa, di turno da sola quella notte, aveva subito per ore violenze sessuali da parte di un paziente prima di riuscire a scappare.

Nel 2021, tramite alcuni questionari anonimi compilati all'università di Pavia, undici specializzande hanno riportato di aver subito dei palpeggiamenti da parte di un primario del Policlinico San Matteo. Solo una delle vittime aveva sporto denuncia nei confronti dell’uomo, per cui la procura di Pavia ha chiesto il rinvio a giudizio per violenza sessuale aggravata e abuso di potere.

In Italia le dottoresse e le infermiere vittime di molestie sul posto di lavoro sono sempre di più: solo negli ultimi tre anni gli attacchi fisici e psicologici nei confronti delle operatrici sono aumentati del 40 per cento.

Le aggressioni alle professioniste medico-sanitarie sono però solo una parte, quella più evidente, di un intero sistema di discriminazione di genere poco riconosciuto e a cui le istituzioni non rispondono ancora sufficientemente.

Le nuove misure di sicurezza

Il settore sanitario in Italia soffre di gravi carenze strutturali di risorse e personale, denunciano i sindacati. Lo stress emotivo di pazienti e familiari, combinato con la sensazione di impotenza per le cure ricevute, tende così a sfociare in episodi di violenza nei confronti di medici o infermieri.

Il 42 per cento dei lavoratori nel settore sanitario italiano afferma di essere stato vittima di almeno un attacco fisico o psicologico, secondo un’indagine dell’Associazione medici di origine straniera in Italia e dell’Unione medica euro mediterranea. Di questi circa tre operatori su quattro (il 72 per cento del totale) sono donne.

A fronte degli ultimi eventi violenti, il governo italiano ha introdotto all’interno del ddl Sicurezza nuove misure per l’incolumità del personale degli ospedali, oltre a inasprire le pene per chi aggredisce.

La misura prevede infatti l'arresto obbligatorio in flagranza o entro 48 ore dall'evento per chi commette violenze contro operatori o danneggia strutture mediche, con reclusione da uno a cinque anni e multe fino a 10mila euro. Inoltre, introduce l’arresto differito entro 48 ore basato su prove video o fotografiche. Il ddl prevede anche linee guida sull'uso di videosorveglianza, già presente nel 70 per cento degli ospedali, e fondi per estenderla ulteriormente.

Nel testo, però, non c’è alcun riferimento alla violenza di genere del settore né viene indicato alcun intervento specifico nei confronti del fenomeno.

Cos’è la violenza di genere in ambito sanitario

Il fatto che le operatrici siano le più colpite dalle aggressioni potrebbe essere in parte spiegabile dal fatto che esse rappresentano più della metà del numero totale dei professionisti medici e sanitari in Italia. Il 58,3 per cento dei medici italiani sono infatti donne; tra gli infermieri, il numero si alza addirittura al 76,2 per cento del totale.

Eppure, secondo numerose associazioni le operatrici sono particolarmente a rischio anche perché vittime di un ambiente dominato da dinamiche di potere sbilanciate, che le espone a molestie fisiche e verbali da parte di pazienti e colleghi.

«Esistono numerose forme di violenza di genere in sanità: dai commenti inappropriati fino agli avanzamenti di carriera subordinate alla richiesta di favori sessuali», spiega la dottoressa Monica Calamai, direttrice generale azienda Usl Ferrara e Coordinatrice della community Donne protagoniste in sanità.

E questo universo di violenza, articolato e intimidatorio, caratterizzato spesso da rapporti gerarchici tra aggressore e vittima, rende complesso riportare la molestia subita. I sindacati sottolineano infatti una scarsa registrazione delle aggressioni (solo il 31 per cento degli operatori vittime di violenza denuncia), che per quanto riguarda le donne è ancor più stigmatizzata.

Nel momento in cui però mancano le segnalazioni, e quindi anche i dati in merito al problema, gli organi di azione e prevenzione riescono ad intervenire con meno efficacia. E meno queste strutture agiscono, meno il processo di segnalazione viene a sua volta normalizzato.

Quando poi gli episodi di violenza non vengono trattati con un percorso di assistenza, aumentano nella vittima la probabilità di soffrire di burnout, che scoraggia a tornare sul posto di lavoro, oltre ad aumentare il rischio di errore medico, spiega la dottoressa Antonella Vezzani, presidentessa dell'Associazione italiana donne medico.

«E questo sicuramente non favorisce né la qualità del lavoro né l'avanzamento di carriera per le donne, che in questo sono già svantaggiate», dice la dottoressa Vezzani.

Il gap salariale del settore

Nonostante la maggioranza delle persone impiegate in sanità siano donne, le posizioni di vertice continuano a essere occupate prevalentemente da uomini, secondo l’Istat.

Nelle cariche dirigenziali, come i direttori di strutture complesse o semplici (un tempo chiamati primari), è ancora la presenza maschile a dominare: è donna solo il 25 per cento dei direttori di struttura semplice e il 19 per cento in quelle complesse.

Questo genera una chiara differenza salariale, poiché i ruoli apicali sono remunerati in modo più consistente. «Questo accade nel pubblico. Nella sanità privata, invece, c'è una differenza stipendiale anche a parità di ruolo», dice la dottoressa Calamai.

Il gap retributivo diventa poi particolarmente marcato nelle fasce d'età “da famiglia”, in cui le responsabilità personali riducono la disponibilità a svolgere attività aggiuntive, e remunerative, come la libera professione.

E questa disparità di retribuzione e posizione va a irrobustire il pregiudizio misogino nei confronti delle professioniste del settore, secondo la dottoressa Vezzani: «Perché alla base delle violenze c’è sicuramente anche la convinzione che il valore delle professioniste sia inferiore ai colleghi maschi, sia a livello di autorità professionale sia di forza fisica».

Una cultura della violenza

Le aggressioni contro le operatrici sanitarie aumentano quando queste lavorano in turni che includono notti e orari antisociali, in cui la supervisione del personale di sicurezza può essere limitata. Il rafforzamento degli strumenti di protezione, quindi, è un passo necessario per gestire il problema degli abusi nei confronti delle operatrici, ma non sufficiente.

Nonostante ad esempio l'aumento in questi anni della presenza della polizia negli ospedali, con un incremento di posti da 120 a 198 e di agenti da 299 a 435, le aggressioni sono cresciute, soprattutto in pronto soccorso.

«Questi provvedimenti non sono ancora abbastanza, perché è evidente che le radici del problema sono culturali», dice la dottoressa Vezzani, per cui l’intero sistema sanità dovrebbe essere ripensato in un’ottica più egualitaria e femminista.

Sarebbe necessario anche anche un intervento strutturale che porti a una maggiore consapevolezza e rispetto per il lavoro delle operatrici sanitarie, a partire dall’educazione, spiega la dottoressa Vezzani, per cui i percorsi di formazione sulla violenza di genere lanciati all’interno delle strutture ospedaliere fino ad ora sono stati sporadici e insufficienti.

«Certo, le pene maggiori sono importanti, ma non è e non sarà risolutivo, perché quando esplode la violenza chi la sta perpetrando certo non pensa alle conseguenze a cui andrà incontro. È un cambiamento nella mentalità alla base dell’aggressione che, invece, può cambiare le cose», conclude Vezzani.

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