Secondo uno studio, il tasso di mortalità fra i pazienti ospedalieri cala se i medici sono donne. Non è una propensione innata alla cura, ma il minore impatto di «incomprensioni e pregiudizi»
Uno studio condotto su oltre 450mila donne e 318mila uomini che tra il 2016 e il 2019 sono stati ricoverati e trattati da medici ospedalieri ha rilevato che il tasso di mortalità è stato più basso tra coloro che sono stati curati da mediche anziché da medici. La differenza più significativa è stata riscontrata tra le pazienti donne, che hanno tratto maggiori benefici di salute se curate da altre donne.
Lo studio non dà spiegazioni sul perché questo succeda, ma chi vi ha lavorato sostiene che sia un buon punto di partenza affinché professionisti e professioniste sanitarie inizino a interrogarsi sulle modalità con cui svolgono il loro lavoro e su come si approcciano alle persone che hanno bisogno di cure.
Secondo Atsushi Miyawaki dell’università di Tokyo, primo autore dello studio pubblicato su Annals of Internal Medicine, le donne avrebbero meno probabilità di subire «errori di comunicazione, incomprensioni e pregiudizi» quando sono curate da altre donne.
Non si tratta di una maggiore propensione del genere femminile a svolgere la professione medica o di un’inverosimile capacità innata delle donne nel prendersi cura delle altre persone. Piuttosto, è il trattamento riservato alle pazienti e i pregiudizi che resistono anche in ambito di salute ciò a cui bisognerebbe prestare maggiore attenzione, sembra suggerire questo studio e chi vi ha contribuito.
A causa infatti dell’impostazione androcentrica della medicina, che cioè considera l’uomo lo standard, la salute delle donne è ancora ampiamente trascurata. I sintomi e le patologie che oggi conosciamo sono stati studiati soprattutto su corpi maschili, mentre i farmaci sono stati a lungo e per molto tempo testati solo su uomini. Questa disparità di genere esiste persino nel modo in cui percepiamo le testimonianze delle donne in ambito medico: spesso infatti le loro manifestazioni di dolore vengono considerate “esagerate” e dunque sminuite, ridimensionate o addirittura non credute.
Il gender pain gap
La diffidenza che abbiamo nel credere al dolore delle donne è conosciuta come gender pain gap, una disparità che esiste tanto nel sentire comune quanto in ambito medico e sanitario. «Il gender pain gap si riferisce agli osservatori – clinici e altre persone che si occupano» di chi manifesta dolore, «come i genitori o gli amici – i quali hanno credenze e aspettative» basate sul genere di appartenenza della persona e sugli stereotipi a esso correlati, ha spiegato Amanda C de C Williams, professoressa di psicologia clinica e della salute alla University College di Londra ed esperta di dolore e dolore cronico. A influenzare in questo senso il modo in cui percepiamo e valutiamo una manifestazione di dolore sono i ruoli di genere e le aspettative a essi legati.
Le caratteristiche considerate maschili, che quindi ci aspettiamo e che la società patriarcale in cui viviamo pretende da un uomo, sono infatti la forza, la resistenza e un approccio stoico alle difficoltà. La fragilità, l’emotività, la vulnerabilità sono invece considerati tratti tipici femminili. Conseguenza di ciò è che il dolore manifestato da un uomo è presto preso in considerazione, ascoltato e trattato perché inaspettato, mentre quello espresso da una donna viene spesso messo in discussione.
Molte donne che soffrono di dolore cronico, ad esempio, si sono sentite dire di essere troppo emotive o esagerate, di lamentarsi troppo o di non riuscire a sopportare dolori “normali”.
È il caso di chi soffre di endometriosi che durante le mestruazioni può provare dolori molto forti e debilitanti, che spesso però vengono ignorati e svalutati come «normali dolori mestruali». Il dolore delle donne è in molti casi anche ricondotto allo stress o a disturbi mentali, tanto che a loro vengono prescritti più antidepressivi che agli uomini.
«Sminuiamo ciò che le donne ci raccontano della loro vita proprio perché le consideriamo inaffidabili e volubili. Allo stesso modo, le donne hanno molte più probabilità degli uomini di veder liquidato il loro dolore come qualcosa che è “tutto nella loro testa”», ha scritto Elizabeth Barnes, autrice e docente universitaria. «Il dolore delle donne, a quanto pare, è frutto di isteria fino a prova contraria».
Da isteria a “donna ormonale”
Comparso per la prima volta nel Corpus Hippocraticus, il termine “isteria” è riconducibile alla parola che in greco antico significa “utero”. Per secoli con “isteria” sono stati indicati tutti quei disturbi diagnosticati nelle donne e le cui cause venivano individuate proprio nell’utero. Dalla stanchezza fisica al mal di testa, fino ai sintomi della menopausa o a problemi neurologici, tutto era ricondotto all’isteria.
Nel tempo, sono cambiate cause e significati, passando dall’essere considerato un problema legato all’utero ad assumere un’origine nervosa: a restare immutata è la forte influenza che ha avuto sullo studio della medicina e del corpo e della salute delle donne. Ancora oggi, nonostante la diagnosi di isteria sia stata eliminata dal Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, la sua eredità si fa sentire negli stereotipi della donna ipersensibile, volubile e vittima delle variazioni ormonali, e nell’attribuire alle sue emozioni i dolori e i disagi che manifesta.
Come spiega la professoressa Williams, chi si occupa di dolore «sottolinea da decenni che solo il paziente può dire quanto dolore prova, e che il clinico dovrebbe prendere questo dato come punto di partenza, e non ignorarlo in base ai giudizi sul paziente stesso». Pregiudizi che non riguardano poi solo il genere, ma «si intersecano a quelli legati all’etnia, all’età, alla storia psichiatrica e ad altre caratteristiche».
Per quanto infatti, spiega la studiosa, questo tipo di disparità «non è limitato solo al settore sanitario», ma è piuttosto radicato nella società e nel modo in cui vediamo e concepiamo il genere femminile, il ruolo di chi lavora in ambito medico è comunque fondamentale: «I medici e gli altri operatori sanitari dovrebbero essere consapevoli di queste convinzioni e stereotipi e di come essi» possano portare a una «valutazione inadeguata e a un trattamento insufficiente del dolore femminile, e della tendenza ad attribuire più facilmente il dolore delle donne a cause psicologiche.
I medici che lo riconoscono e cercano di affrontarlo meritano il nostro rispetto; quelli che credono che non esista un divario di genere nel dolore continueranno a metterlo in atto nei confronti delle loro pazienti donne, a scapito della loro salute».
© Riproduzione riservata