Il bracciante si poteva salvare. La sua morte è avvenuta in un contesto imprenditoriale fondato sulla manodopera a basso costo e sullo sfruttamento sistemico. Un dato noto che ora un giudice del tribunale di Latina mette nero su bianco facendo a brandelli la propaganda della destra di governo che ha sempre sottovalutato il tema e difeso, per ragioni elettorali, il feudo di riferimento.

La ricostruzione di ogni passaggio dell’omicidio di Satnam Singh riporta le lancette indietro di 150 anni, certe zone del paese sembrano l’Alabama degli schiavi e del razzismo, dove la vita umana aveva un senso solo se bianca e padronale, altrimenti valeva niente. Nelle pagine dell’ordinanza di custodia cautelare, firmata dal giudice Giuseppe Molfese ed eseguita dai carabinieri, c’è il fallimento di uno stato, l’ignavia dei controlli, un sistema criminogeno e la ferocia di un padrone.

L’orrore

In carcere è finito Antonello Lovato, imprenditore agricolo, accusato di omicidio con dolo eventuale per la morte del lavoratore Satnam Singh. I fatti ci riportano al 17 giugno scorso quando Singh subisce l’amputazione di un arto mentre manovra un macchinario all’interno dell’azienda agricola dove lavora senza contratto e senza protezioni. Lovato lo carica in auto, lo porta davanti al luogo dove dormiva e lo scarica insieme al suo braccio che aveva posizionato all’interno di una cassetta della frutta.

Lovato sottrae i cellulari all’uomo agonizzante e alla moglie e, dopo averlo scaricato, lava il furgone dove il sangue del signor Singh era sgorgato a fiotti continui. «Una storia di allarmante disprezzo per la vita altrui e di inaccettabile sofferenza umana fino al decesso che sembra essere solo la più grave conseguenza di un sistema diffuso», scrive il giudice. Nell’ordinanza si parte dal contesto territoriale e imprenditoriale nel quale si è verificato l’orrore, un contesto noto, votato all’illegalità e al diffuso sfruttamento nonostante la propaganda della destra di governo che ripete, per ragioni elettorali, la panzana dei casi isolati.

A basso costo

Il giudice lo scrive chiaramente: «Il triste decesso del lavoratore indiano potrebbe apparire come conseguenza casuale ed episodica» e, invece, «alla luce dei frequenti riscontri processuali o esclusivamente investigativi, la provincia di Latina, nelle sue zone agricole, è connotata da numerose aziende che, salve le eccezioni, beneficiano di manodopera a basso costo, offerta da cittadini di nazionalità indiana».

In provincia di Latina ci sono 13 mila persone appartenenti alla comunità indiana e, a parte le solite buone pratiche ed eccezioni positive, molte si trovano costrette «ad accettare posizioni lavorative precarie, senza garanzie contrattuali, con retribuzioni non conformi ai contratti (...) senza adeguata formazione (...) in contesti agricoli ove non risultano rispettate le minime e più basilari regole in materia di sicurezza ed igiene sui luoghi di lavoro». Tra questi c’era Singh che lavorava, per pochi spicci, alle dipendenze di Lovato insieme alla moglie, ogni mattina si muovevano in bici per andare a guadagnare la giornata.

Quel 17 giugno viene descritto dalla relazione dell’Asl dove si mettono in fila i momenti che precedono il dramma. Nel terreno agricolo è in azione il macchinario per mettere il telo nel rullo, la camicia di Singh si impiglia dentro con conseguente «totale distacco dell’arto destro e gravi lesioni». Quel macchinario non aveva alcuna certificazione, i lavoratori non avevano alcuna protezione ed erano irregolari, sprovvisti di ogni tipo di formazione. L’episodio dell’incidente viene ricostruito diversamente dal padrone e dalla moglie di Singh, la donna poco dopo l’incidente ha chiesto di chiamare i soccorsi, ma Lovato rispondeva: «È morto, è morto».

L’insistenza spingeva l’imprenditore agricolo a caricare in auto il ferito e la moglie prima di lasciarli davanti alla loro abitazione. Il braccio amputato, invece, è stato scaricato nei pressi dei cassonetti della spazzatura, un resoconto confermato anche dai testimoni. Testimoni che raccontano il ritrovamento della mano, scene descritte come agghiaccianti. Gli accertamenti medico legali hanno chiarito un dato: Singh si poteva salvare se fosse stato subito assistito, l’incidente e l’omissione successiva ne hanno causato il decesso. Il soccorso immediato avrebbe «interrotto il decorso causale verso la morte». Lovato non voleva la morte del suo lavoratore, scrive il giudice, ma «pur di nascondere la realtà (...) ha posto in essere tutti gli accorgimenti descritti, anche a costo di concretizzare l’evento mortale che, progressivamente, si poneva dinanzi a lui».

Il padrone

Come si è giustificato quando è stato ascoltato? L’imprenditore ha spiegato che il macchinario era manovrato solo da lui, circostanza smentita dalla moglie del lavoratore, e che Singh «ha preso un telo e lo ha agganciato all’avvolgitelo senza che io gli avessi detto di farlo». E dopo l’incidente? «Sono stati attimi di panico. Non ricordo chi abbia raccolto il braccio e successivamente messo all’interno di una cassetta nera che poi ho visto fuori dall’abitazione di Singh». Quando il pm gli chiede della mancata chiamata dei soccorsi, il padrone risponde così: «Perché la moglie diceva di portarlo a casa e per questo l’ho caricato sul furgone».

Sul lavaggio del furgone, invece, replica così: «L’ho lavato io e non è intervenuto nessuno. Ho fatto tutto da solo. L’ho lavato perché c’era del sangue ed ero e sono tutt’ora sotto shock». Per il giudice il suo comportamento «è apparso lucido e finalisticamente teso a dissimulare quanto accaduto, a tutti i costi». Lovato è finito in carcere per la possibile reiterazione di violazioni e perché potrebbe «avvicinare i testimoni ed intimorirli, atteso lo stato di soggezione e sfruttamento cui essi soggiacciono». Il tutto, scrive il giudice, in nome della massimizzazione del profitto. Il profitto, «l’ombroso Lucifero (...) dalle ali di bitume» parafrasando il poeta, e Nobel per la letteratura, Eugenio Montale.

© Riproduzione riservata