Considerata la sproporzione tra i limiti oggettivi della questione da un lato e, dall’altro, l’enfasi attribuita alla riforma («epocale») con gli strappi che essa comporta, non si può non chiedersi il perché, ovvero quale sia il vero obiettivo. Si può dare una sola risposta: indirizzare un messaggio intimidatorio ai magistrati
Non è il caso di indugiare sui pro e sui contro della separazione delle carriere dei magistrati. Questione annosa e controversa sulla quale le opposte opinioni sono da gran tempo cristallizzate. Questione che sta al centro della declamata “riforma della giustizia” varata dal Consiglio dei ministri. Titolazione decisamente enfatica e impropria, trattandosi più esattamente di “riforma dei magistrati”.
Mi limito al secco giudizio dell’avvocato Franco Coppi, che l’ha bollata come «inutilmente ideologica». Giudizio interessante perché formulato da un principe del foro, che si sottrae alla rigida polarizzazione tra le opposte “corporazioni”: avvocati favorevoli, magistrati contrari. Dunque, prescindendo dal merito, per farsene un’opinione merita considerare contesto e metodo.
A cominciare dall’incidente che ha preceduto il varo del provvedimento da parte del Consiglio dei ministri: un colloquio del ministro Nordio e del sottosegretario Mantovano al Quirinale che avrebbe dovuto essere riservato, spacciato come un via libera del presidente Mattarella (la mattina seguente Il Giornale così titolava “Cambia la giustizia, sì del Quirinale”). Palesemente un falso.
Il baratto delle riforme
Conosciamo benissimo lo scrupolo e la correttezza di Mattarella, il quale non interferisce nella sfera di autonomia di governo e parlamento. Specie, come in questo caso, quando si tratta di materia costituzionale e, di più, di riforme che possono intaccare le sue prerogative (come il Csm da lui presieduto).
Basterebbe tale sgarbo per farsi un’idea del modo – le scarpe chiodate – con il quale il governo si comporta in tema di Costituzione e, in questo caso, di giustizia. Un test eloquente di ciò che potrà accadere allorquando, introdotto il “premierato assoluto” con plebiscito popolare, il rapporto tra governo e presidente della Repubblica si risolverebbe in una subordinazione.
Del resto, lo sappiamo: si tratta della terza bandierina tenacemente voluta da FI, che si affianca alle altre due: il premierato, vessillo di Meloni, e l’autonomia differenziata, moneta di scambio della Lega. L’opposto del metodo che si conviene alle riforme: visione condivisa (e non crudo baratto) e confronto effettivo con l’opposizione. Nonché dialogo con i destinatari della riforma e non contro di essi.
Qualcuno si è spinto a evocare il progetto piduista. Altri più semplicemente, persino proclamandolo con toni trionfalistici, come la realizzazione del sogno di Berlusconi tra i cui lasciti meno encomiabili e più divisivi si iscrive la guerra ai magistrati. Una riforma «epocale», l’hanno definita Meloni e Nordio. Curiosamente varata in un Consiglio dei ministri di venti minuti a una settimana dalle elezioni europee.
Operazione propagandistica
Una precipitazione chiaramente inscritta nel quadro di una operazione propagandistica ove a ciascuno dei tre partiti di maggioranza, nel segno di una rigorosa par condicio, sia dato modo di agitare il proprio trofeo.
Merita porsi due domande: quale sia il rapporto di tali misure con i mali endemici e concreti dell’amministrazione della giustizia, a cominciare da quello della durata dei processi; e quali le dimensioni del fenomeno, da stroncare, del passaggio dall’una all’altra carriera (da inquirente a giudicante o viceversa).
Conosciamo le rispettive risposte: nessun rapporto, rilevanza zero. I passaggi di carriera sono in numero irrisorio, e, dopo la riforma Cartabia, ciascun magistrato potrà cambiare una sola volta. Dunque, considerata la sproporzione tra i limiti oggettivi della questione da un lato e, dall’altro, l’enfasi attribuita alla riforma («epocale») con gli strappi che essa comporta, non si può non chiedersi il perché, ovvero quale sia il vero obiettivo.
Si può dare una sola risposta. La seguente, che di nuovo ci rinvia al tempo e alle gesta del Cavaliere: indirizzare un messaggio intimidatorio ai magistrati. Un messaggio che, a sua volta, fa seguito a parole e atti volti a svilire i presidi di legalità, le istituzioni di garanzia e di controllo, il principio della separazione dei poteri.
Sullo sfondo, una complessiva visione in contrasto con la idea-forza del costituzionalismo democratico suscettibile di essere condensata nella seguente massima: “Porre limiti al potere di chi comanda”. A ben vedere, la cifra illiberale che connota la natura e la cultura del governo delle destre, nelle quali antichi riflessi condizionati si mescolano con il portato del berlusconismo. Una miscela di autoritarismo e di anarco-individualismo.
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