Occorre conoscere norme, regole e prassi dei diversi luoghi di detenzione. Le nostre visite potevano durare anche cinque giorni in uno stesso istituto
I luoghi di privazione della libertà sono dei luoghi intrinsecamente opachi e spesso bui. Contesti in cui difficilmente l’occhio esterno può entrare, osservare, frugare, analizzare.
È per questo che il Consiglio d’Europa prima e le Nazioni unite poi hanno previsto degli organismi di vigilanza con il potere di entrare in essi in qualsiasi momento senza autorizzazione e avendo accesso a ogni ambiente, ad avere colloqui riservati – e quindi non ascoltati – con le persone ristrette o trattenute e ad accedere a tutta la documentazione relativa, sia quella scritta sia quella video, come le telecamere di sorveglianza.
Tre poteri forti per garantire l’efficacia del controllo, per illuminare gli angoli bui, quelli più isolati e quindi maggiormente a rischio di possibili abusi. Tre poteri a cui si aggiunge un quarto: quello di formulare raccomandazioni alle istituzioni, che queste ultime sono tenute a ottemperare o a cui devono rispondere in maniera motivata.
Ed è su questo modello che l’Italia ha istituito nel 2013 il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, divenuto operativo nel 2016 con la nomina del primo collegio a tre (un presidente e due componenti), organismo che l’Italia ha indicato anche quale Meccanismo nazionale di prevenzione, cioè quale espressione nazionale del Comitato contro la tortura delle Nazioni unite.
Visitare, dunque, è il verbo attorno a cui si costruisce l’intera Authority. Visitare in maniera approfondita, sapendo cosa cercare, dove indirizzare lo sguardo, come verificare, mettendo a confronto la documentazione con le informazioni raccolte e con quanto osservato direttamente. Visitare non solo per vedere ciò che appare, ma per riuscire a intercettare possibili criticità a rischio di divenire un problema di sistema. Visitare per prevenire che gli eventuali abusi riscontrati si diffondano, alimentando una cultura non rispettosa dei diritti. Visitare al di là delle situazioni conclamate, illuminando luoghi troppo silenziosi.
In questi giorni si stanno giustamente moltiplicano le visite in carcere da parte di parlamentari, associazioni professionali, realtà del Terzo settore, magistrati di sorveglianza. Visite certamente importanti per constatare le condizioni degli istituti, spesso di degrado, ma non funzionali a un’azione preventiva di vigilanza.
Perché, per un organismo di vigilanza, visitare, per come è definito questo compito in ambito internazionale, vuol dire molto altro. Soprattutto non è un atto che si esaurisce in poche ore. È un processo, che inizia dalla individuazione dei luoghi da visitare, per proseguire con la ricognizione di dati e informazioni su di essi, che richiede una preparazione accurata e l’individuazione ragionata dei componenti la delegazione affinché siano presenti diverse competenze.
Perché quando si entra occorre sapere cosa guardare, cosa cercare, conoscere i nodi in cui si possono annidare situazioni critiche, gli interstizi in cui l’illegittimità si nasconde. Occorre conoscere norme, regole e prassi dei diversi luoghi di privazione della libertà, dalle carceri, ai centri di permanenza per il rimpatrio, alle camere di sicurezza dei posti di polizia, alle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, ai Servizi psichiatrici di diagnosi e cura e altri ancora.
Sapere cosa guardare
C’è poi la fase della visita vera e propria, che richiede tempi ampi per verificare, confrontare la documentazione con quanto rilevato dall’osservazione diretta e dai colloqui effettuati, per mettere insieme ciò che i diversi componenti la delegazione hanno riscontrato, per dialogare con il personale che vi lavora.
Visitare un luogo vuol dire entrare nelle stanze, nelle celle, nelle camere di sicurezza, nei moduli dei centri di permanenza per il rimpatrio, vuol dire farsi aprire qualsiasi locale si ritenga utile all’esame complessivo di quel luogo, vuol dire osservarne i dettagli, le sale comuni, le docce, i bagni, il cibo, le possibili tracce di violenze, vuol dire analizzare i registri, la documentazione scritta e se necessario anche quella video e incrociarli tra loro. Vuol dire parlare con le persone ristrette senza fretta, ascoltandole, proteggendole dal rischio di ritorsione, entrando con rispetto nel luogo della loro vita anche se è una cella, superando diffidenze e paure, evitando ogni rischio di manipolazione, verificandone la congruità e la credibilità.
Da Garante nazionale, le nostre visite potevano durare anche quattro/cinque giorni in uno stesso istituto, con delegazioni anche di dieci persone con specializzazioni diverse. Visite ripetute in un medesimo istituto per approfondire ciò che era ben nascosto. Visite non annunciate per osservare, in un contesto non preparato, la quotidianità delle criticità.
Infine, la visita si sviluppa in un rapporto scritto. Perché senza rapporto le visite restano mute e non producono cambiamenti. È da esso, infatti, che si apre un dialogo con le istituzioni coinvolte, dialogo talvolta serrato e difficile, altre volte più lineare. È attraverso il rapporto che la società civile e chiunque sia interessato può conoscere attraverso gli occhi dell’organismo di vigilanza ciò che accade in tali luoghi, una volta che sia stato reso pubblico insieme alle eventuali osservazioni dell’amministrazione.
Un organismo di garanzia quando visita non si limita solo a entrare in un luogo privativo della libertà e a vederne alcune parti, tanto meno accompagnato da chi gestisce la struttura. Non si accontenta di un’occhiata veloce. Non ha fretta di passare alla visita successiva. Colpisce, pertanto, che l’attuale Garante nazionale abbia comunicato (18 giugno) di aver effettuato, nei primi 145 giorni del mandato, 53 visite di cui 44 a istituti penitenziari, 5 a Cpr e 4 camere di sicurezza, cioè una quasi ogni tre giorni.
Visite evidentemente brevi con delegazioni essenziali, quasi sempre il solo collegio, e ancora prive di un rapporto reso pubblico. Sul significato delle visite è, quindi, bene ragionare e confrontare le esperienze anche degli organismi analoghi di altri Paesi.
Preparazione, approfondimento, con uno sguardo che vada oltre la legalità e la regolarità per evidenziare situazioni illegittime sotto il profilo dei diritti umani.
Questo è il compito degli organismi di garanzia. Un lavoro complesso, indispensabile, fondato su indipendenza e competenza.
L’autrice dell’articolo è stata componente del Collegio del garante nazionale dei detenuti
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