Le distanze rimangono più ampie che mai. Come da pronostico, il vertice tra il governo e l’Associazione nazionale magistrati ha certificato l’impossibilità di una qualsiasi mediazione sulla riforma costituzionale della giustizia.

«È stato un incontro non breve in cui c'è stato un lungo scambio di opinioni che, devo dire, non ha portato a sostanziali modifiche delle nostre posizioni né di quelle del governo», ha dichiarato il presidente dell'Anm, Cesare Parodi, uscendo dall'incontro con la premier Giorgia Meloni e i vertici di governo a Palazzo Chigi. Parodi ha anche aggiunto: «Credo non sia stato inutile perché abbiamo avuto modo di spiegare nel dettaglio le ragioni specifiche, tecnico giuridiche, che ci portano assolutamente a non condividere questa riforma. Lo abbiamo fatto. E abbiamo preso atto con molta chiarezza di una volontà del governo di andare avanti senza alcun tentennamento, e alcuna modifica sul punto».

Del resto, sul tavolo c’era un margine di trattativa inesistente: il governo si presentava con la separazione delle carriere blindata, l’Anm con una controproposta di segno opposto, con la «promozione di una maggiore interscambiabilità tra le funzioni», ovvero il contrario della netta separazione, perché «la limitata possibilità di cumulare esperienze di giudicante e requirente riduce la qualità della giurisdizione».

Se la premier Meloni, il sottosegretario Alfredo Mantovano, il vicepremier Antonio Tajani e il ministro della Giustizia Carlo Nordio avrebbero voluto circoscrivere il dialogo alla sola riforma, la delegazione dell’Anm si è presentata con tutti i dieci componenti della nuova giunta, con la coccarda tricolore usata durante lo sciopero al petto e con un documento di otto punti che ha allargato ad altri argomenti.

Il confronto

Questa infatti è stata la contromossa studiata dalle toghe: il governo sperava di accontentare il Colle con un’apertura al dialogo ma solo sulle future leggi ordinarie di attuazione, in particolare sul sorteggio temperato; i magistrati si sono presentati con una lista di richieste molto più ampia.

Dall’assunzione di 1.000 magistrati alla chiusura dei piccoli tribunali, fino ad investimenti in personale e in edilizia giudiziaria e penitenziaria. Tradotto: «Sulla separazione delle carriere abbiamo capito il bluff del dialogo, ora incalziamo il governo sulle vere riforme necessarie e vediamo cosa fa», spiega una fonte interna.

Del resto è scontato che di leggi attuative si parlerà almeno nel 2026 e dando per scontato che la riforma passi in via definitiva, superando anche lo scoglio del referendum costituzionale.

Esattamente il passaggio su cui invece punta l’Anm per far saltare tutto: sperando che, quando si celebrerà, il governo sia in calo nei sondaggi e il quesito di fatto si trasformi in uno sondaggio sul suo operato di fine legislatura. Dopo due ore di riunione, l’esito è stato quello di una certificazione di una oggettiva incomunicabilità. Nonostante la nota di Chigi che parla di incontro «proficuo e franco»: la presidente «ha ringraziato l’Anm e ha annunciato la disponibilità di aprire un tavolo di confronto» ma solo «sulle leggi ordinarie di attuazione della riforma e sul documento in otto punti di Anm, che riguarda l’amministrazione della giustizia».

Il governo ha trovato convergenza con le Camere penali guidate da Francesco Petrelli, eloquentemente incontrate in mattinata prima dell’Anm. Meloni ha ringraziato gli avvocati «per il grande lavoro che svolgono quotidianamente» e con loro ha condiviso la necessità di separare le carriere tra giudici e per «garantire la parità processuale tra accusa e difesa».

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