Traffico di influenze illecite: il titolo di reato evoca faccendieri all’opera introno a scambi illegali al prezzo di una merce impalpabile fatta di connivenze personali. Torna spesso nei processi più mediatici: per citare casi recenti, Tiziano Renzi nel caso Consip; il marito della ministra Federica Guidi (poi dimessasi) nel caso Tempa Rossa; Gianni Alemanno nel caso Mafia Capitale; oggi l’ex collega di Giuseppe Conte, Luca Di Donna.

Cos’è

Che cosa prevede è piuttosto contorto in teoria, oltre che difficile da tradurre in esempi pratici. Le fattispecie punite sono due. La prima è quella di chi, sfruttando o vantando relazioni “esistenti o asserite” con un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio, si fa dare indebitamente oppure fa dare ad altri denaro o altre utilità, come prezzo della mediazione. Tradotto: il faccendiere con buone connessioni nella pubblica amministrazione chiede denaro a un imprenditore per svolgere il ruolo di intermediario.

La seconda ipotesi è quella di chi, con la medesima condotta, chiede denaro non per sé, ma per remunerare il pubblico ufficiale “in relazione all’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri”. Ovvero: il faccendiere si presenta come mediatore tra un imprenditore e un pubblico ufficiale e riceve denaro con l’impegno di usarlo per pagare quest’ultimo, in cambio di favori l’imprenditore. In entrambi i casi, a essere punibili sono sia il mediatore che il privato disposto a pagare.

Di Donna, per esempio, è indagato insieme ad altri due avvocati con l’ipotesi di aver sfruttato le sue relazioni personali con pubblici ufficiali – l’ex premier Giuseppe Conte, l’ex commissario Domenico Arcuri e dirigenti del ministero dello Sviluppo – per mediare in favore di alcuni imprenditori, con l’obiettivo di fargli ottenere appalti legati all’emergenza Covid.

Tanto aggressivo il nome, quanto lieve la pena: il traffico di influenze illecite, infatti, è punito con il carcere da 1 a 4 anni e 6 mesi. Una pena relativamente bassa che lo esclude – pur essendo inserito tra i reati contro la pubblica amministrazione – dalla lista di delitti per cui si possono disporre intercettazioni. Tuttavia, proprio a causa della sua consistenza «inafferrabile», come l’ha definita il professore di diritto penale al Sant’Anna di Pisa, Tullio Padovani, è spesso ipotizzato insieme ad altri reati più gravi come l’associazione per delinquere. Dunque le intercettazioni vengono comunque svolte.

Per capire esattamente in che cosa consista il reato e soprattutto in cosa si differenzi dalla corruzione, bisogna ripercorrerne la storia. Il reato non era presente nel nostro ordinamento fino al 2012, quando è stato introdotto durante il governo Monti dalla guardasigilli Paola Severino, che ha modificato anche i reati che afferiscono alla corruzione. La ragione è quella di rispondere a sollecitazioni internazionali, in particolare la convenzione di Merida sulla corruzione delle Nazioni unite e la Convenzione penale sulla corruzione del Consiglio d’Europa ratificata dall’Italia pochi mesi prima. Il reato di traffico di influenze nasce per punire tutte le attività preparatorie della corruzione vera e propria. Infatti, i due soggetti puniti sono colui che si offre come mediatore e il privato che accetta, tra i quali sorge il cosiddetto “pactum sceleris” – il patto per il delitto – mentre il pubblico ufficiale non ha alcun ruolo.

Il nuovo reato – tipico degli ordinamenti anglosassoni – aveva l’obiettivo di colmare un vuoto nella casistica penale e si incastonava all’articolo 346 bis del codice penale, dopo il millantato credito (articolo 346 del codice penale.) e le fattispecie più gravi di corruzione propria e impropria degli articoli 318 e successivi.

La riforma Spazzacorrotti del 2019 voluta dal ministro Alfonso Bonafede ha invece abrogato il millantato credito (che prevedeva che il mediatore vantasse solo di poter esercitare influenza sul pubblico ufficiale senza averne realmente i mezzi) e lo ha accorpato con il traffico di influenze, di cui ha aumentato la pena massima da 3 a 4 anni e 6 mesi.

Tuttavia, i problemi sono rimasti. In particolare quello di tradurre in pratica quali comportamenti integrino questo reato e, soprattutto, quale sia il confine che separa l’attività di un faccendiere che traffica di influenze illecite da quella di un lobbista, che è un professionista che agisce lecitamente ma del cui ruolo in Italia non esiste esatta regolamentazione.

Inoltre, rimane un altro elemento che rende inafferrabile il reato e quindi difficile da dimostrare: se il denaro viene consegnato al mediatore per corrompere il pubblico ufficiale, i soldi non devono essere effettivamente né consegnati né promessi al pubblico ufficiale. Altrimenti si rientra nella corruzione.

Come si dimostra

Proprio perché il pubblico ufficiale rimane fuori dagli eventi che integrano il reato, i soggetti punibili per traffico di influenze illecite sono i due che si accordano: il faccendiere e il privato che lo paga per farsi favorire nei rapporti con la pubblica amministrazione.

Il problema, però, è capire quando lo scambio di denaro si realizza illecitamente e quali prove lo dimostrino. Innanzitutto serve dimostrare un legame tra il faccendiere e il pubblico ufficiale, quindi che i due almeno si conoscano. Poi va provato lo scambio di denaro o la promessa. Infine – e questo è l’elemento complesso – bisogna dimostrare la finalità di quel pagamento o promessa di pagamento. Ovvero, che i soldi siano il prezzo della mediazione illecita: basta che lo siano nelle intenzioni del mediatore e di chi promette o paga, non serve che la mediazione abbia concretamente avuto luogo. Oppure siano la remunerazione del pubblico ufficiale per un atto in favore di un privato, che però non deve ancora essere stato svolto e che può essere di tutti i tipi, “nell’esercizio della funzione o dei poteri”.

Questo è un altro elemento che complica la ricerca della prova: l’atto che il mediatore ha influenzato a compiere non è specificato e può quindi essere anche politico. Ma come si dimostra, per esempio, che la scelta politica che incide su una pluralità di soggetti sia il prodotto di una influenza illecita di un singolo? Il reato si perfeziona anche se il mediatore intasca per sé i soldi senza poi esercitare alcuna influenza sul pubblico ufficiale.

A non facilitare il compito degli inquirenti c’è anche il fatto che il traffico di influenze illecite non è inserito nella lista dei reati che escludono la punibilità per chi denuncia, dunque il privato che paga il mediatore con finalità illecita non ha alcun incentivo a denunciarlo all’autorità, perché rischia di trovarsi sotto indagine.

Nè può essere d’aiuto nella prova il pubblico ufficiale che dovrebbe essere “influenzato” e di cui il mediatore utilizza il nome: il patto deve avvenire a sua insaputa. Altrimenti sarebbe anche lui parte in causa, si rientrerebbe nelle fattispecie della corruzione e tutti gli antefatti verrebbero inglobati nel reato più grave, senza essere punibili in modo autonomo.

Questi elementi provocano un effetto: ampi margini di discrezionalità per gli inquirenti che indagano, ma anche enormi difficoltà probatorie. Il reato di traffico di influenze illecite, infatti, è talmente vago e tutto nella mente degli autori (o degli inquirenti) che una semplice promessa di denaro tra un privato e un professionista che opera in ambiti contigui alla pubblica amministrazione potrebbe dare adito all’ipotesi. Infatti si tratta di un reato spesso contestato ma poi difficilmente provabile a processo e assorbito in altri.

© Riproduzione riservata