La fine degli anni Sessanta segnò l’inizio degli anni di piombo, caratterizzati dall’esacerbarsi del confronto politico nel contesto di quella che fu poi individuata come la strategia della tensione. Fu un periodo di grande inquietudine, animato da proteste, lotta armata, attentati e atti di terrorismo di varie matrici. A metà degli anni Settanta, il brutale omicidio di Pier Paolo Pasolini, uno dei maggiori intellettuali italiani del Novecento, sconvolse il mondo della cultura.

La morte del poeta e regista, osservatore critico della società borghese dei consumi e della corruzione del potere, lasciò l’Italia in una nebbia di angoscianti interrogativi. In quegli anni il mondo cattolico stava iniziando a mutare, la Chiesa cercava di intraprendere un percorso verso una maggiore apertura. Papa Giovanni Paolo I aveva enunciato uno straordinario pensiero: «Noi siamo oggetto da parte di Dio di un amore intramontabile. È papà, più ancora è madre». Un’affermazione che aveva scosso il Vaticano dalle fondamenta e fatto sussultare gli alti prelati.

Dopo quel breve ma intenso pontificato di papa Albino Luciani, la cui morte prematura sollevò più di un sospetto, con il nuovo conclave del 1978 venne eletto Karol Wojtyła, che si insediò con il nome di Giovanni Paolo II. Fu lui a ordinare la revisione del processo a Galileo Galilei e a dargli l’assoluzione, ammettendo per la prima volta l’umana fallibilità della chiesa. In quel clima di drammatici e complessi avvenimenti, la criminalità intensificò il fenomeno dei rapimenti.

La notte del rapimento

La sera del 12 febbraio 1978, con Pier Marco Cosentini e la sua amica Giovanna Amati, il cui padre Giovanni era un noto produttore e proprietario di una catena di cinema, trascorremmo una piacevole serata al Number One (locale romano, ndr). Quando la riaccompagnammo a casa, in via dei Villini, in zona Nomentana, accostammo la macchina davanti al cancello del civico 35 per le ultime chiacchiere sulla serata, non facendo caso al pulmino Fiat 850 grigio che, nel frattempo, ci aveva affiancati, e dal quale uscirono tre uomini armati, col viso coperto. All’improvviso uno di loro sfondò col calcio della pistola il vetro del mio finestrino posteriore, puntandomi l’arma alla tempia, un secondo, minacciando anche Pier Marco, sfilò le chiavi dal cruscotto, mentre il terzo aprì la portiera trascinando Giovanna fuori dalla macchina.

Mentre lei tentava di resistere, aggrappandosi dove poteva, ricordo che rimasi lucido, consapevole di poter essere considerato sacrificabile, e restai immobile con il freddo della canna appoggiata alla tempia, i vetri frantumati sul viso e le grida disperate di Giovanna nelle orecchie. Quando il pulmino si dileguò, il tempo dilatato di quei minuti riprese a scorrere, e io scesi dall’auto e andai a citofonare.

Mi rispose Anna Maria Pancani, la madre, a cui con imbarazzo dissi: «Mi scusi… credo che abbiano rapito sua figlia». Rimasi in silenzio davanti al citofono, finché non sentii le sirene delle pattuglie. Le indagini rivelarono che il rapimento era stato organizzato da Daniel Nieto, capo della banda dei Marsigliesi, da poco evaso da un carcere francese. Per paura dei rapimenti e delle forti tensioni politiche e sociali, molti dei miei amici, in quel periodo, furono mandati a studiare all’estero. Nel marzo di quell’anno, nel giorno in cui il nuovo governo Andreotti si apprestava a chiedere la fiducia al Parlamento, le Brigate Rosse, in via Mario Fani, dopo aver ucciso tutti gli agenti della scorta, rapirono il presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro.

Il caso Moro fu uno degli snodi più significativi dei tormentati anni Settanta, che segnò una vera e propria frattura nella politica dell’epoca, precludendo ogni possibilità di un compromesso storico che avrebbe avuto ripercussioni anche su dinamiche ed equilibri a livello internazionale. Sotto certi aspetti fu da molti considerato l’inizio della fine degli anni di piombo. L’anno successivo compii diciott’anni, assumendo le mie prerogative di Patrono.

La Golf

Coadiuvato dall’avvocato di mia nonna scrissi al consiglio del Sovrano Militare Ordine di Malta per indicare me stesso come Balì. In via ufficiosa, l’allora gran cancelliere, esercitando di fatto una discrezionalità che non era prevista dal Breve pontificio, convinse mia nonna ad aspettare, perché, a suo avviso, ero troppo giovane per una carica così importante e lei, che amministrava i beni del Baliaggio, preferì non entrare in conflitto, sperando fosse solo una questione di tempo.

Quanto a me, il Baliaggio mi sembrava una cosa lontana, era lei a occuparsene, mentre io ero più interessato a trovare la strada per la mia emancipazione. I suoi piani per il mio futuro erano chiarissimi, e lei, con caparbia determinazione, cercava di spingermi in quella direzione, provando a domare la mia irrequietezza e la mia curiosità esistenziale. La sua arma più efficace era quella economica. Il nostro rapporto si manteneva in equilibrio tra le mie richieste e le sue concessioni, con lei che finiva quasi sempre per accontentarmi.

Come quando pretesi un modello di macchina più potente, e lei provò a opporsi: scavalcai il davanzale della sua finestra minacciando di buttarmi dal secondo piano, rivelando già allora una certa propensione alla teatralità. Finì per cedere e mi comprò la Golf GTI, che per me rappresentava un passo imprescindibile verso la libertà che bramavo, anche semplicemente quella di viaggiare per conto mio.

Porta Portese 

Fino ai diciott’anni, infatti, trascorsi con lei buona parte delle mie vacanze. In inverno si andava a Gstaad, in Svizzera. Nell’ultima parte del viaggio, da Montreaux, prendevamo il trenino, che si riempiva di celebrità e rappresentanti dell’aristocrazia europea i quali con discreta eleganza e disinvoltura animavano conversazioni leggere, studiando nel frattempo il parterre con chirurgica attenzione, per inquadrare appartenenze e alberi genealogici. Si scendeva dal treno con un’agenda già ricca di appuntamenti mondani.

La nonna indossava una pelliccia di visone bianco e un foulard di Hermès che copriva le mollette per tenere la piega dei capelli, e viaggiava con due valigie rosse di finta pelle acquistate a Porta Portese, che contrapponeva con orgoglio alle mie di Gucci che l’avevo obbligata a comprarmi. Una volta, a metà del viaggio, una delle sue valigie cedette, rivelando, tra gli abiti, alcune bottiglie di birra Peroni, tra gli «attentissimi» regards indifférents degli altri passeggeri. 

Per molti quella situazione sarebbe risultata insostenibile, ma non per lei che, a un certo punto, cercò di aprire una delle bottiglie con un oggetto metallico che aveva trovato sul tavolinetto di fronte, forse un cucchiaino, finché non fu interrotta dal controllore che si offrì di aiutarla. Nel frattempo la valigia fu accomodata con lo spago, alla bene e meglio, da un solerte inserviente, mentre io guardavo fuori dal finestrino fingendo estraneità, rassicurato dal pensiero delle mie valigie con le iniziali marchiate a fuoco, non dorate.


Il testo è un estratto di La bellezza nel destino (Sperling&Kupfer 2024, pp. 304, euro 19,90) di Urbano Barberini

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