La parola del leader è vera anche di contro alla realtà; anzi, tanto peggio per la realtà, perché il leader ha il compito sommo di unire contro ogni divisione. Contraddire quella parola equivarrà a dividere la nazione
«Il leader politico è un capopopolo. Non so se sia un bene, ma oggi è così». Con queste parole lo scorso martedì a Otto e mezzo Italo Bocchino incensava il nuovo personalismo meloniano, che di recente si è manifestato nelle sue forme più vistose sia sul palco di Atreju che dallo scranno parlamentare.
Bocchino si riferiva a una traiettoria tipica delle nostre democrazie, in cui la capacità della guida politica si esprime innanzitutto come carismatica forza mobilitante. Rispetto a tale traiettoria, nel dibattito pubblico si commette spesso un errore: si interpreta il personalismo politico come lo stadio conclusivo e la massima degenerazione della personalizzazione della politica.
Quest’ultima, nota ormai da decenni, concerne la tendenza secondo cui la forza di trazione dei partiti non è dovuta alla spinta ideale o allo slancio ideologico, bensì alle qualità personali dei loro esponenti di punta. La personalizzazione della politica è certo deprecabile, perché sposta l’intero dibattito su elementi affettivamente efficaci ma poveri in cultura politica, come la rappresentazione della corporalità fisica e mediale del leader.
Da Craxi e Berlusconi fino a Grillo e Salvini, il leader cementa il consenso in base alle proprie caratteristiche materiali e morali (qualche volta immorali). Questa “celebrity politics”, secondo la formula del politologo John Street, trasforma il leader politico in influencer e conduce nella sua sfera privata, là dove l’elettore può scoprirsi fan e follower.
Il personalismo politico di Meloni, tuttavia, è qualcosa di diverso non per grado, ma per natura, ed è pericolosamente legato al fenomeno delle democrazie esecutive. Ben più che comunicatore “influente”, il leader personale deve innanzitutto saper plasmare un’identità collettiva e impartire un indirizzo politico alla comunità. In questa chiave, Carl Schmitt, autentico maître à penser degli odierni governi illiberali, contrapponeva negli anni Venti e Trenta del Novecento l’impersonalità della legge al personalismo del capo.
A suo avviso la politica non può fondarsi sulla vuota astrattezza di leggi generali, tanto più se di rango costituzionale, perché queste non fanno che fissare obiettivi indeterminati. Né le leggi possono essere affidate alla tutela ultima delle corti, perché queste sono composte da funzionari che non hanno alcun rapporto diretto con il popolo. La questione chiave è allora quella del “chi comanda”, e solo in seconda battuta del “come”.
La costituzione assume un indirizzo preciso, e può essere tradotta in programma attuabile, solamente alla luce dell’interpretazione autentica fornita dal capo personale, in grado di unire la società lungo una direttrice comune perché sa indicare una strada percorrendo la quale il popolo si scoprirà popolo. A tal fine, la parola del leader deve saper contare non per i suoi contenuti e tantomeno perché lancia una tendenza, ma perché proviene da quella specifica persona.
Il leader personale deve sapersi affermare come fonte morale autoritativa e metro di misura del vero. Sarà del tutto inefficace, a quel punto, qualsiasi eventuale tentativo di verifica dei fatti da parte dei suoi detrattori: la parola del leader è vera anche di contro alla realtà; anzi, tanto peggio per la realtà, perché il leader ha il compito sommo di unire contro ogni divisione. Contraddire quella parola equivarrà a dividere la nazione.
Per paradosso, dunque, il leader personale non unisce in virtù di una pastorale del bene comune, bensì dividendo. Il leader compatta il suo elettorato quando individua con perizia i nemici interni ed esterni e ne compita pubblicamente i nomi, finanche di privati cittadini, che minacciano la coesione nazionale e mettono a rischio la realizzazione del progetto di destino. Insomma, personalismo politico e antitesi amico-nemico sono il recto e il verso di una medesima logica politica.
I leader delle democrazie esecutive sfruttano oggi questo antico meccanismo, performativo e polemogeno al contempo, e rompono così con la più innocua politica delle celebrities. Trump, Orbán, Milei e Meloni (non importa quanto diversi per impostazione ideologica) si presentano come la pietra angolare di un rinnovato progetto di comunità politica e pretendono di indicare una via al loro popolo. In questo c’è più di messianico che di mediatico, e il rischio è che, rispetto ai politici cartonati vittime del fascino effimero dei social, costoro abbiano appreso un principio tanto potente quanto nocivo: la politica, nei momenti chiave, deve sapersi elevare al di sopra di qualsiasi verità.
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