Con Aleppo e Idlib conquistate in pochi giorni i jihadisti ribelli avanzano verso Hama. Quello che accadrà nelle prossime ore è cruciale per la sopravvivenza del regime del presidente siriano Bashar al Assad e se l’esercito si è ritirato senza colpo ferire da Aleppo, a Hama si combatte senza sosta. Se anche questa città dovesse cadere, i ribelli hanno la strada spianata verso sud, verso Homs e poi dritti sulla via della capitale Damasco.

Per questo motivo le forze armate siriane hanno inviato rinforzi via terra mentre l’aeronautica continua a bombardare alcune aree periferiche e a chiedere aiuto a Mosca. Nel fine settimana la Russia ha eseguito una serie di raid aerei ad Aleppo e nella provincia di Idlib che secondo l’osservatorio siriano per i diritti umani hanno ucciso anche otto civili. Ad Aleppo i russi hanno colpito il Collegio francescano Terra Sancta, ha detto ieri il ministro degli Esteri Antonio Tajani che oggi è al Cairo per una conferenza umanitaria per Gaza.

In un attacco di Mosca, secondo il governo libanese, è stato ucciso Abu Muhammad al Jolani, capo di Hayat Tahrir al Sham il gruppo ribelle che sta destabilizzando il paese. Ma al momento non ci sono informazioni indipendenti che confermano la sua morte. Difficile orientarsi su ciò che sta accadendo sul terreno, dove le parti in conflitto fanno il loro gioco sporco pubblicando notizie false o video che in realtà risalgono ai tempi più bui della guerra civile.

«La situazione a Damasco è tranquilla, non si è sentito nulla: giravano video riciclati da altri casi di scontri che non corrispondevano al vero», ha detto l’ambasciatore italiano in Siria, Stefano Ravagnan, ospite a “In mezz’ora” collegato dalla capitale. Ma alcune immagini sono state verificate da media indipendenti.

Sono quelle girate ad Aleppo, dove si vedono i ribelli festeggiare la conquista abbattendo le statue di Hafiz al Assad, padre dell’attuale presidente e simbolo della famiglia che detiene il potere da circa 60 anni.

Il sostegno dell’Iran

Il figlio Bashar oggi controlla metà della Siria ma non intende demordere. «Il terrorismo comprende solo il linguaggio della forza, e questo è il linguaggio con cui lo spezzeremo e lo distruggeremo, indipendentemente dai suoi sostenitori e sponsor», ha detto allontanando le indiscrezioni circolate sabato sera secondo cui alcune frange governative avevano tentato un golpe di stato. A Damasco si è recato ieri il ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi. È il primo esponente politico a visitare la capitale da quando lo scorso 27 novembre è iniziata l’offensiva dei ribelli.

Il regime di Teheran ha offerto il pieno supporto e il suo presidente Masoud Pezeshkian ha esortato i paesi islamici a intervenire «per prevenire il protrarsi della crisi in Siria e impedire agli Stati Uniti e a Israele di sfruttare i conflitti interni di altri paesi». Per l’Iran il paese non può collassare, è un territorio strategico per le milizie sciite di Hezbollah ospitate. Sul canale televisivo israeliano Channel 12 i ribelli hanno attaccato proprio il gruppo libanese: «I membri di Hezbollah che sono venuti in Siria e hanno sostenuto il regime di Assad, non avranno un punto d’appoggio permanente», ha detto.

«Non permetteremo loro – ha aggiunto – di combattere nelle nostre aree e non permetteremo agli iraniani di stabilirsi lì e sostenere le milizie iraniane nel portare avanti azioni ostili contro le regioni che abbiamo liberato, sia a Idlib che nella provincia di Aleppo». Per l’ennesima volta in Siria si combattono anche le guerre per procura di altri stati.

Ora sono tutti alla porta per tendere una mano o capire quale fazione supportare. Russia e Iran hanno le idee chiare. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu sta monitorando gli sviluppi con l’obiettivo di «preservare i risultati della guerra», e un gruppo che combatte Hezbollah lontano da Israele sicuramente è di aiuto. Gli Stati Uniti hanno aperto un canale di comunicazione con la Turchia, accusata di supportare i ribelli.

Fallimento politico

Ma è chiaro che dopo anni di stallo la “bomba” siriana è esplosa di nuovo. La facilità con cui i fatti si sono sviluppati dimostra la fragilità del paese.

Dopo che la comunità internazionale ha accolto milioni di profughi in giro per il mondo ora si ritrova a fare i conti con un paese sprofondato nella crisi. Per il momento, l’unico a fare autocritica è l’inviato speciale dell’Onu in Siria Geir O. Pedersen.

«Ciò che vediamo oggi in Siria è il segno di un fallimento collettivo nell'attuazione di ciò che è stato chiaramente necessario per molti anni: un vero processo politico per attuare la risoluzione 2254 (2015) del Consiglio di Sicurezza» ha detto ieri in un comunicato stampa. Un fallimento che continuano a pagare i civili. Almeno 48 sono stati uccisi su un totale di 372 morti registrati dall’Osservatorio siriano per i diritti umani.

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