Il gioco posizionale, i due tocchi, la riduzione del gioco aereo, la mutazione dei portieri. Il calcio sta prendendo in prestito le caratteristiche tipiche del futsal. L’evoluzione ha portato due mondi lontani a incontrarsi: grazie a una nouvelle vague di allenatori che lavora sulla necessità di utilizzare le capacità cognitive per creare spazi dove non ci sono. Così il il calcio è oggi una sorta di futsal a 11. Anche i molti autogol-rimpalli si spiegano così
Il gioco posizionale, i due tocchi, il pallone che resta quanto più possibile a terra, una mutazione tecnica nell’allenamento dei portieri, e dunque nello sviluppo di alcuni fondamentali: se il calcio oggi ci sembra – e lo è – diverso da quello di alcuni anni fa, è anche perché si è iniziato a ragionare su quaranta metri e non su cento o centodieci, prendendo in prestito alcune caratteristiche tipiche del futsal, disciplina che in Italia è conosciuta pochissimo, al contrario di quanto avviene per esempio in Spagna, Portogallo e Russia, per non parlare del Sudamerica. Il futsal è il calcio a 5, che non è il calcetto del giovedì, cioè un calcio in 5, come è invece considerato di solito, e lo racconta l’ibridazione odierna, dove la nouvelle vague tecnico-tattica sta ribaltando il concetto e avvicina il calcio a una sorta di futsal a 11. Dove il pallone, però, non è a rimbalzo controllato.
Dario Marcolin, allenatore oggi in quiescenza, commentatore di Dazn e già protagonista della Lazio dell’era Cragnotti, conosce il tema come pochi altri. Con oltre duecento presenze tra A, coppe europee, coppe nazionali e Premier, a carriera calcistica finita passò al futsal, giocò nel Torrino e finì anche a vestire la maglia della Nazionale di calcio a 5 allenata allora dal ct Alessandro Nuccorini. Lo convinse Piero Gialli, suo amico, oggi coordinatore tecnico della Divisione calcio a 5, «e per i primi tre mesi fui un disastro. Ho dovuto impostare completamente un altro sport, ma quando ho raggiunto il modo di pensare e di muoversi di un giocatore di futsal, con l’esperienza che avevo, volavo nonostante l’età». Un modo di pensare e di muoversi che, allora, nel calcio non interessava a nessuno. Oggi, invece, l’evoluzione ha portato due mondi, che a lungo in Italia sono parsi lontani, a incontrarsi.
Dalla profondità e dall’attacco alle seconde palle si è passati a un gioco prevalentemente palla a terra, dal possesso al gioco posizionale, sino alla chiamata in causa, pallone tra i piedi, dei portieri: «La filosofia di tante squadre è cambiata, è vero. Oggi si gioca meno con il pallone in aria, si predilige un possesso nel quale si fanno uno o due tocchi e si cambia posizione, si scarica e si parte per non dare punti di riferimento. Tocca e muovi, tocca e muovi. Nei movimenti offensivi poi c’è spesso la ricerca dell’attaccante come pivot, con gli esterni che entrano a raccoglierne le sponde. Guardate ad esempio il Napoli e il gioco che fa Lukaku con Politano e Kvaratskhelia: non è che Conte abbia imitato il calcio a 5, ma ne sfrutta alcune specificità».
Il trionfo dell’ibrido
Erano rette parallele, da un po’ si sono incontrate. E, con un po’ di visione, calcio e futsal potrebbero supportarsi, laddove si cerca un modo per nutrire il talento a livello di Nazionale. Intanto, le specificità del calcio a 5 mutuate sul grande prato verde sono essenzialmente tre, ma ben visibili: «La prima riguarda la parata a croce e le modalità di uscita che vengono insegnate ai portieri, tipiche del futsal. La seconda è il sempre più comune utilizzo degli esterni a piede invertito, il destro a sinistra e il mancino a destra. Il terzo è il gioco a due tocchi palla a terra. Poi ci sono alcuni movimenti offensivi, per esempio nel 4-3-3, il mio sistema di gioco preferito come allenatore, che si attuano con la punta centrale come pivot. Ai tempi della Lazio li scoprimmo con Zeman, che li portò dalla pallamano». E i rimpalli, occhio: i tanti autogol in stile flipper vengono dal traffico in area, dalla corsa che non puoi fermare, quando una palla gettata sul secondo palo sbatte proprio lì. Chi gioca a futsal lo sa. Chi gioca a calcio l’ha capito.
Una buona ventina di anni fa, però, un’evoluzione di questo genere non sarebbe stata possibile, perché calcio e futsal erano anche ben più diversi dal punto di vista del contesto. Rispetto al passato, i campi del calcio odierni sono molto più pettinati, e ciò significa che il pallone può rimbalzare senza le irregolarità di un terreno sconnesso, rendendo i terreni sintetici paradossalmente più vicini alle superfici indoor che non a quelle in erba naturale, rendendo più facili e veloci i passaggi brevi rasoterra.
A livello arbitrale, la presenza di sale Var affollate di anatomopatologi della quisquilia regolamentare ha reso il contatto fisico sempre più rischioso: non siamo al limite di falli (nel futsal, dopo i cinque falli di squadra per tempo, viene decretato il tiro libero per gli avversari), ma un certo snaturamento rispetto a ciò che è sempre stato è evidente. Se poi si pensa che da anni, a intervalli regolari, c’è chi chiede di sperimentare il tempo effettivo nel calcio, ecco che il processo di ibridazione assume una certa organicità.
Guardiola e i settori giovanili
Alla base di tutto c’è sempre Pep Guardiola, che non ha mai fatto mistero del continuo scambio di idee, ai tempi in cui allenava il Barça B, con Marc Carmona, allora tecnico della sezione futsal della polisportiva blaugrana, e non è un caso se certi movimenti li si vede fare soprattutto a giocatori non italiani. Vale anche per l’uno contro uno. Un esempio su tutti: il gol segnato dallo juventino Francisco Conceiçao in Champions contro il Lipsia. Roba davvero da futsal, ma poco da Italia, dove i bambini iniziano a giocare 5 contro 5 e passano a 7 contro 7 dalla categoria Pulcini con cui, essendo vietato ai portieri il rinvio oltre la metà campo, si tenta di insegnare a muoversi e passare il pallone, poi però il ragazzino che prova l’uno contro uno, e che magari vi riesce, viene pure redarguito dall’istruttore che si crede allenatore, perché non è quello che gli ha chiesto. Così, invece di migliorare in più fondamentali, finisce per non impararne nessuno.
In Italia, in Serie D alla guida del Forlì, c’è un allenatore che le metodologie del futsal le ha portate con convinzione nel calcio, in maniera bidirezionale. Alessandro Miramari, 54 anni, dopo essere stato per un quinquennio responsabile della formazione tecnica nel settore giovanile del Bologna, utilizzando il calcio a 5 per educare i ragazzini a pensare differentemente il calcio a 11 (un ruolo che poi l’ex ct della Nazionale, Alessio Musti, ha portato alla Juventus, dove le qualifiche sono in inglese e oggi è Futsal project coordinator e Youth U19s to U14s technical coordinator) e avere allenato nella A2 del futsal, è tornato al calcio a 11 ed è riuscito a portare l’improbabile Corticella sino a vincere i playoff di D. «Quando mi scelsero – racconta – c’era scetticismo e basta. I risultati hanno però fatto sì che qualcuno si incuriosisse e venisse a vedere come lavoravamo. Io però non ho inventato nulla, ho solo portato alcune esperienze che avevo conosciuto in Paesi dove il calcio a 5 è propedeutico al calcio, mentre qui è considerato una sorta di sottodisciplina». Cosa che, a suo avviso, non è vera: «Le regole del calcio sono 17, come quelle del futsal, la propulsione viene in entrambi i casi dalle gambe e il mezzo tecnico sono i piedi; si tratta invece solo di contestualizzare il gioco nella riduzione dello spazio che porta una riduzione dei tempi e la necessità, da parte dei calciatori, di utilizzare le proprie capacità cognitive per creare appunto gli spazi dove non ci sono e per entrare nei mezzi spazi creati dagli altri».
Non è soltanto una questione di mode, ma anche di contesto. Solo che poi, più che a migliorare integrando, a livello mediatico se ne fa una questione di schieramenti: di qua gli uni, di là gli altri, idolatrando santoni e parolai, parlando per slogan, perdendo tempo. E occasioni.
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