- La circostanza che il delitto sia stato compiuto trent’anni fa e che il perdono e la remissione della scomunica di Rupnik siano arrivati solo nel 2019 comporta che il notissimo prete-artista abbia predicato, celebrato messa, girato il mondo, ricevuto il plauso di papi e finanziatori delle sue opere con una scomunica sul groppone.
- Come può il superiore dei gesuiti dire che questo elemento non intacca il valore della produzione teologica e artistica di Rupnik?
- Come può un dirigente della Chiesa considerare una scomunica una pena da nulla, un fatto secondario?
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La prima osservazione su quanto è emerso sinora a proposito del “caso Rupnik” è che i dirigenti della Chiesa Cattolica non hanno ancora pienamente compreso che viviamo da tempo nella società dell’informazione e che in questo contesto alla Chiesa non viene più permesso di considerarsi superiore alle altre organizzazioni e di sottrarre le sue azioni alla vista e al giudizio della pubblica opinione.
Il gesuita di origine slovena Marko Ivan Rupnik, intellettuale e artista di fama, è accusato di aver commesso abusi sessuali su alcune suore all’inizio degli anni Novanta.
Dinanzi al florilegio di notizie sul caso, il preposito generale dei gesuiti padre Arturo Marcelino Sosa ha dapprima ridimensionato la portata del caso, sostenendo che quelle tra Rupnik e alcune donne consacrate era stata soltanto una “questione tra adulti” e che le misure restrittive adottate verso il gesuita (proibizione di confessare e tenere esercizi spirituali, eccetera) erano di natura “cautelare”, adottate durante l’indagine che la Congregazione per la Dottrina della Fede aveva svolto sul gesuita sloveno qualche tempo prima conclusasi con un non luogo a procedere per sopravvenuta prescrizione del reato.
A distanza di pochi giorni e sollecitato da un giornalista dell’Associated Press, l’alto prelato ha completamente cambiato versione e ha parlato dei delitti canonici commessi da padre Rupnik, della scomunica nella quale era incorso (poi rimessa) e della sofferenza delle vittime. Tutta un’altra storia.
Porzioni di verità
Il vertice dei gesuiti sia offrendo di volta in volta all’opinione pubblica solo quelle porzioni di verità che è stato costretto a rivelare perché incalzato dall’emergere caotico di nuove notizie, mentre la Congregazione per la Dottrina della Fede e il pontefice, che pure è un gesuita, tacciono del tutto.
Tutto questo ci autorizza purtroppo a pensare che nulla sia cambiato rispetto al passato, e cioè a un tempo nel quale la Chiesa preferiva la reticenza alla verità, il nascondimento alla sincerità, l’omertà complice alla denuncia.
Non si può dichiarare la “tolleranza zero” verso gli abusi sessuali e di altra natura e poi balbettare dinanzi ai giornalisti, tirar fuori versioni completamente diverse nello spazio di una settimana, mostrarsi reticenti e apparire più interessati ad evitare lo scandalo che a rivelare il vero. Così si perde totalmente di credibilità, su questa come sulle altre questioni legate agli abusi.
Il rischio di perdere la residua credibilità va tuttavia per la Chiesa molto al di là della sola lotta agli abusi del clero.
La scomunica
Per capirlo dobbiamo entrare nel merito della vicenda e del delitto contestato a Rupnik. Costui avrebbe, nel corso degli anni Novanta, assolto in confessione il proprio complice, cioè la donna con la quale aveva avuto un rapporto sessuale in spregio del sesto comandamento.
La violazione sarebbe stata ammessa dallo stesso Rupnik almeno nel momento in cui ha chiesto di essere perdonato e reintegrato.
Il fatto è che la commissione di quel delitto, spiegano i canonisti, comporta per la Chiesa la scomunica immediata (latae sententiae) anche in assenza di un processo e di una sentenza, per il solo fatto di aver perpetrato la condotta incriminata.
La circostanza che il delitto sia stato compiuto trent’anni fa e che il perdono e la remissione della scomunica di Rupnik siano arrivati solo nel 2019 comporta inevitabilmente che il notissimo prete-artista abbia predicato, celebrato messa, girato il mondo, ricevuto il plauso di papi e finanziatori delle sue opere con una scomunica sul groppone, cioè di fatto in una posizione di totale estraneità alla Chiesa, perché questo è una scomunica, un’espulsione dalla comunità.
Come può il superiore dei gesuiti dire che questo elemento non intacca il valore della produzione teologica e artistica di Rupnik? Come può un dirigente della Chiesa considerare una scomunica una pena da nulla, un fatto secondario?
E come può mostrarsi reticente sul ruolo che il pontefice ha giocato nella vicenda, se è vero che, come mi ha confermato il mio amico canonista, le scomuniche possono essere rimesse solo dalla sede apostolica. Al di là delle questioni giuridiche, il punto è: quanto la Chiesa prende sul serio le sue stesse norme e i doveri dei suoi funzionari?
Quanto il castello di leggi che essa stessa ha costruito vale solo per i semplici fedeli e quanto si applica anche ai potenti? Un’organizzazione che si presenta come veicolo di salvezza per l’umanità non può eludere la risposta a questo interrogativo.
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