Il Black Friday è un ottimo strumento per misurare l’inesorabilità del tempo che passa e la caducità delle nostre vite. Il capitalismo ha vinto, siamo ciò che compriamo, e l’appuntamento annuale con la smania consumistica innescata dagli sconti scontatissimi rivela molto della natura umana, o almeno della mia natura, più di quanto mi faccia piacere ammettere. Mi piacerebbe essere al di sopra di tutto questo, sposare un certo minimalismo e vivere di sensazioni, trovare appagamento tra gli alberi di un bosco o nella risata di un bambino, ma non potrei essere più lontana da questo tipo di benessere spirituale. Per me le cose sono importanti.

Voglio le cose, penso spesso alle cose, dedico diverso tempo ogni giorno a cercare cose sull’internet. Ho un potere di acquisto limitato, quindi la mia passione per le cose è mitigata dalla povertà e dal buonsenso, e negli anni ha preso la forma di un talento per scovare cose a prezzi convenienti. Le cose usate mi piacciono molto perché costano meno delle cose nuove, mentre le cose nuove mi piacciono soprattutto in certe svendite.

Amo le cose della moda e le cose per la casa, tengo liste di cose che comprerei se fossi molto ricca: so già quali cose andrebbero nel mio appartamento da milionaria, ho scelto divani, ottomane, tappeti e altre cose di lusso. Ogni tanto vengo assalita dal desiderio di farmi un regalo e compro a me stessa una cosa sfiziosa, ma mai troppo sfiziosa, a meno che non mi trovi nell’outlet di Prada che è convenientemente collocato vicino a casa dei miei suoceri, dove spesso mi trovo in periodo natalizio. Sono circostanze perfette per concedersi una cosa speciale.

Siamo ciò che compriamo

Il Black Friday è la festa delle cose e come dicevo è possibile usarlo non solo per comprare cose a prezzi ridotti, ma anche per monitorare l’incedere della propria vecchiaia. Cosa avrei bramato anni fa? Quali cose bramo adesso?

Se siamo ciò che compriamo a questo punto io sono senza dubbio un kiwi Zespri gold, unico bene di lusso a cui non rinuncio nella mia quotidianità, nonostante il prezzo mi faccia sospettare che l’oro del nome non sia riferito solo alla qualità del frutto e al suo colore, ma anche alla sua quotazione da metallo prezioso.

Ci sono poi alcune cose su cui mai avrei pensato di spendere dei soldi e che invece adesso alimentano le mie wishlist, oltre che le mie crisi esistenziali. Avreste mai indovinato che un sapone per le mani potesse costare più di una cena fuori?

Nemmeno io, eppure eccomi a sniffare i prodotti di Aesop e a chiedermi se il tassello mancante per la felicità non si trovi, dopotutto, in quel flacone da 500 ml di detergente che svolge la stessa funzione di un Palmolive da tre euro, ma a differenza del Palmolive da tre euro ha il potere di farmi sentire una persona migliore (mentre nel mio bagno degli anni Sessanta continuo ad avere una doccia con una sola temperatura, troppo fredda per l’inverno, troppo calda per l’estate, che invece mi fa sentire in un film neorealista in cui avrei preferito non apparire).

C’è poi una categoria merceologica che è riuscita a diventare il simbolo della mia generazione, composta perlopiù da persone non abbastanza ricche per comprarsi la casa, ma sufficientemente stabili economicamente per profumare i propri bilocali in affitto con candele molto costose.

Non avremo mai il caminetto, ma per 60 euro possiamo comprare il formato piccolo di una candela di Diptyque che spande odore di legna bruciata tra i nostri mobili di truciolato Ikea. Sono candele preziose, oggetti da esporre con orgoglio, cose di un certo prestigio. In quanto tali è previsto che tu possa conservarle al loro meglio richiudendole con un imprescindibile coperchio, che non è incluso ma può essere tuo a partire da 25 euro.

Il Rolex dei millennial

E alla fine arriva lui, il protagonista delle nostre fantasie, il Rolex dei millennial, il correlativo oggettivo di tutte le nostre malattie mentali: il Dyson. In origine era l’aspirapolvere, un dispositivo arrivato dal futuro capace di risucchiare non solo la polvere ma anche i nostri problemi. Di recente, presentando un libro a un pubblico di trentenni, ho chiesto quante persone avessero un Dyson in casa.

Molte mani alzate. Subito dopo ho chiesto chi avesse detto un padre nostro nell’ultimo anno. Zero mani, sterpaglie secche sospinte dal vento nel Mojave, e questo è tutto ciò che ho da dire sui millennial e la religione.

Nel tempo le cose di Dyson si sono moltiplicate, in una misura inversamente proporzionale alla nostra razionalità: cinquecento euro di asciugacapelli? Certo. Ottocento di purificatore dell’aria? Perché no.

Invecchiare significa questo? Collezionare oggetti di lusso per rendere le nostre esistenze vagamente più assimilabili? Imborghesirsi a metà? Smettere di desiderare cose dilettevoli e spostare l’attenzione su ciò che è utile? Mi chiedo mettendo nel carrello un aggeggio per togliere i pelucchi dai maglioni che mi trasmette una piccola scarica di eccitazione carnale.

Mentre scorro al computer una selezione di lenzuola di lino, avendo deciso che ormai è il letto l’unica area della casa in cui ha senso investire, e mi interrogo per il secondo anno consecutivo sulla moralità dell’Airwrap – l’asciugacapelli futuristico che mi separa dalla chioma dei miei sogni – provo un moto di disgusto verso me stessa e la superficialità dei miei bisogni.

Eppure questa consapevolezza non ha il retrogusto amaro che ci si aspetterebbe, ma il sapore squisito e dolcissimo di un kiwi giallo.

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