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Sembra prevalere il convincimento che reddito, crescita e inflazione in Italia siano prevalentemente il risultato dei provvedimenti del Governo in carica e delle leggi emanate dal Parlamento, oltre che dalla realizzazione del Pnrr
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L’andamento di una piccola economia integrata nel mondo come l’Italia dipende però in modo cruciale da quanto succede nel resto del mondo.
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Tutte e tre le economie di Usa, Cina e Germania stanno attraversando un periodo di crisi non avendo ancora ritrovato la capacità di crescere stabilmente, e senza inflazione, dopo lo shock della pandemia, aumentando quindi la probabilità di una recessione globale che investirebbe anche l’Italia.
Nel dibattito politico in vista delle elezioni di settembre non si tiene in benché minima considerazione che l’economia mondiale sta navigando in uno stretto braccio di mare tra gli scogli di recessione e inflazione.
Sembra prevalere il convincimento che reddito, crescita e inflazione in Italia siano prevalentemente il risultato dei provvedimenti del Governo in carica e delle leggi emanate dal Parlamento, oltre che dalla realizzazione del Pnrr; gli acquisti dei nostri titoli di stato da parte della Bce e le forniture di gas russo sarebbero gli unici aspetti degni di rilievo al di fuori dei confini.
Ma l’andamento di una piccola economia integrata nel mondo come l’Italia (la cosiddetta small open economy) dipende in modo cruciale da quanto succede nel resto del mondo. E se si guarda fuori dall’Italia si vede come tutte e tre le principali economie, Usa, Cina e Germania, stiano attraversando un periodo di crisi non avendo ancora ritrovato la capacità di crescere stabilmente, e senza inflazione, dopo lo shock della pandemia da Covid.
La Cina mantiene la politica delle restrizioni per combattere la pandemia, nota come zero Covid, anche se alla lunga risulta inefficace nell’eliminare i casi di contagio. Una politica che però deprime i consumi: nella prima parte di quest’anno, e tenuto conto dell’inflazione, sono cresciuti a un tasso del 10 per cento al di sotto del loro trend pre-covid.
I due colossi tecnologici Tencent (l’analogo di Facebook) e Alibaba (l’analogo di Amazon), il cui conto economico dipende da pubblicità e voglia di spendere dei consumatori, hanno registrato il primo trimestre di ricavi in declino della loro storia. Oltre alla politica dello zero covid, c’è la crisi immobiliare, un settore che secondo alcune stime costituisce fino al 30 per cento del pil (includendo l’indotto), a deprimere consumi e investimenti.
Il governo ha infatti mantenuto i tassi reali elevati per evitare il credito facile e il rischio di una “Lehman Brothers” cinese, e spostato l’onere del finanziamento degli sviluppi immobiliari sugli enti locali e le banche pubbliche. L’attività di costruzione si è dimezzata rispetto ai massimi, e le vendite immobiliari sono cadute del 29 per cento a luglio, dopo il -18 di giugno.
La reazione alla crisi
L’approccio alla crisi tende ad ammortizzare nel tempo il minor valore dello stock immobiliare per prevenire fallimenti drammatici, ma in questo modo tiene in vita società zombie che deprimono gli investimenti; senza contare l’effetto sui consumi, visto che gli immobili costituiscono una parte rilevante della ricchezza dei cinesi. Il governo punta nuovamente sugli investimenti pubblici, che però non sono in grado di rivitalizzare l’economia privata.
Così nei giorni scorsi, la Banca Centrale ha sorpreso i mercati tagliando i tassi di interesse, anche se in misura marginale: è infatti limitato lo spazio di manovra della politica monetaria per contrastare la bassa crescita (appena 0,4 per cento nel secondo trimestre) perché rischierebbe di causare fuoriuscite di capitali e una crisi valutaria dalle conseguenze potenzialmente pervasive come accadde nel 2015. Pertanto, a differenza del passato, la Cina costituirà un elemento di freno alla crescita e al commercio internazionale ancora a lungo.
Nell’Eurozona il modello economico tedesco, basato su industria, esportazioni, ed energia russa a basso costo è entrato in crisi senza apparente soluzioni in vista. Anche un settore trainante come l’auto accusa il colpo della svolta elettrica: l’anno scorso, la Cina ha esportato mezzo milione di auto in Europa, quasi tutte elettriche, senza contare il dominio asiatico nella produzione delle batterie.
La fiducia dei consumatori è in caduta libera, inferiore persino ai mesi dello scoppio della pandemia nel 2020; e l’indice Zew che misura l’ economic sentiment è crollato ai livelli della grande crisi del 2008 e di quella dell’euro del 2012. Ma una Germania in panne ha un effetto recessivo in Europa perché 67 per cento del commercio internazionale tedesco è con altri paesi europei (e 38 quello con il resto dell’Eurozona).
A cui aggiungere il rischio del taglio delle forniture di gas russo quest’inverno, usata come arma per minare il sostegno europeo all’Ucraina. La Commissione Europea non trova soluzioni concordate e unitarie per affrontare il caro energetica. E la Bce molto probabilmente continuerà a settembre il rialzo dei tassi visto che l’inflazione a luglio era in crescita all’8,9 per cento rispetto al 8,6 di giugno (e il doppio dell’obiettivo del 2 per cento anche escludendo il costo dell’energia e dei prodotti alimentari), e che il deprezzamento dell’euro alimenta l’inflazione importata (ha perso l’11 per cento da inizio anno rispetto al dollaro).
Negli Stati Uniti l’inflazione ha probabilmente toccato il picco nel mese di giugno e comincia rallentare ma resta a un livello molto al di sopra dell’obiettivo del 2 per cento (5,9 anche depurato del costo di energia e alimentari) segno che la fase di normalizzazione della dinamica dei prezzi durerà a lungo. L’occupazione rimane elevata e i salari crescono, ma meno dei prezzi, riducendo così il loro potere di acquisto e contribuendo a raffreddare i consumi.
Altri indicatori puntano nella stessa direzione come l’aumento delle scorte nella distribuzione e il rallentamento della raccolta pubblicitaria e delle vendite al dettaglio. Ma è troppo poco per pensare che la fase di aumenti dei tassi da parte della Federal Reserve sia vicina alla fine. C’è tuttavia grande incertezza se la Banca Centrale continuerà ad aumentare i tassi fino a che inflazione e aspettative siano tornate stabilmente vicino al 2 per cento, anche a rischio di causare una recessione, oppure se di fronte ai segnali di rallentamento invertirà la dinamica dei tassi, accettando che l’inflazione si assesti al di sopra del 2.
Ma poiché la politica monetaria è diventata data dependent, ovvero reagisce ai dati piuttosto che basarsi sulle previsioni, non è dato da sapere quali dei due scenari sia maggiormente probabile, e quindi il rischio recessione.
Un peso determinante per il rischio recessione l’avranno l’andamento del mercato azionario e del settore immobiliare. Il primo per via dell’importante effetto ricchezza che i mercati finanziari hanno sul comportamento dei consumatori americani. Ma Wall Street in questo momento sembra a sua volta guidata dalle aspettative sulla politica dei tassi della Federal Reserve.
L’impennata nel costo dei mutui ha cominciato a sgonfiare prezzi e compravendite immobiliari, dopo un vero e proprio boom. Non siamo agli eccessi delle precedenti crisi immobiliari ma il settore gioca un ruolo rilevante sia per la dinamica dell’inflazione (gli affitti, anche figurati, sono la principale componente dell’indice dei prezzi), sia per la crescita dato il peso del settore nell’economia. Pertanto, se anche gli Usa evitassero una recessione vera e propria, è tuttavia è molto probabile che l’economia attraverserà un periodo di marcato rallentamento.
L’implicazione di questo scenario è che la probabilità di una recessione globale è elevata, e avrebbe i paesi dell’Eurozona come epicentro. Uno scenario che coinvolgerebbe pesantemente l’Italia, ma un rischio totalmente assente dai programmi dei partiti e dal dibattito politico. Trasformerebbe però il vincitore alle prossime elezione in un novello Pirro, quello della vittoria sui Romani, conquistata a così caro prezzo da trasformarsi in sconfitta.
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