Firmare i referendum della Cgil? Non è un atto di lesa maestà fare un bilancio della legge La strada delle maggiori tutele del lavoro è stata imboccata da tempo. Non c’è nessun tradimento del riformismo
Elly Schlein ha annunciato che firmerà i referendum promossi dalla Cgil. La tesi di chi la critica è la seguente: il Jobs Act è stato un successo, una misura “riformista” - mai una parola fu tanto manomessa - che ha generato occupazione. Qualcuno si spinge a dire che il contratto a tutele crescenti ha ridotto la precarietà.
La cancellazione del diritto al reintegro sul posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo ha indebolito invece la costituzione materiale su cui si reggeva il patto tra lavoro e impresa.
Molti rispondono: ma c’è l’indennizzo, il lavoratore comunque non resta a mani vuote. Una tesi che non condivido: la monetizzazione dei rapporti di lavoro produce un indebolimento del potere contrattuale, rende ricattabile chiunque, sostituisce un diritto esigibile sul piano individuale con un rimborso economico.
Il feticcio dell’art.18
L’articolo 18 è sempre stato il feticcio da abbattere per tutti i liberisti del nostro paese perché era la principale garanzia di un confronto equilibrato tra le parti sociali. Una questione puramente di potere: siccome è l’impresa che ne ha di più, il divieto di licenziamento illegittimo rappresentava un’innegabile corazza protettiva.
D’altra parte, la forza della norma serve a garantire la parte debole della società o almeno così dovrebbe essere nei paesi con una Costituzione liberale nata dopo la sconfitta del fascismo. Il mercato non ha bisogno infatti di norme, le considera quasi sempre un impaccio: per questo nasce lo Statuto dei lavoratori.
Fare un bilancio dunque dopo nove anni di Jobs Act non è un atto di lesa maestà. Ci consente di capire perché il lavoro ha perso peso e potere. Lo dicono le sentenze dei tribunali del lavoro, con i reintegri ridotti al lumicino, i contratti collettivi non rinnovati da anni, infine i punti di Pil spostati dai redditi da lavoro alle rendite e ai profitti. Una gigantesca redistribuzione verso l’alto del potere e dunque della democrazia. Si è indebolito il sindacato, ridicolizzato come strumento ormai ottocentesco che “usa i gettoni per ricaricare l’iPhone” come ebbe a dire Renzi in polemica con l’allora leader della Cgil Susanna Camusso.
Allo stesso tempo i risultati che vengono rivendicati in termini di occupati vanno iscritti innanzitutto nel ricorso a incentivi (8mila euro ad assunto il primo anno): finito il doping delle decontribuzioni sono finite le assunzioni e sono cominciati i licenziamenti. Pensare insomma che, eliminando i diritti, le imprese siano più incentivate ad assumere è una lettura oggettivamente ideologica. Nonché priva di fondamento. Molti dimenticano che il Jobs Act era stato preceduto dal decreto Poletti che aveva aumentato da 12 a 36 mesi la possibilità di prorogare i contratti a termine eliminando le causali, oltre ad aver liberalizzato i voucher poi parzialmente corretti con il Governo Gentiloni, infine riproposti e allargati da Meloni.
Abbiamo bisogno di una discussione seria e rigorosa: il referendum della Cgil aiuta ad aprire una breccia nella discussione sulla lotta alla precarietà nonché sulla qualità del capitalismo italiano che non può competere su scarse tutele, bassi salari e pochissima innovazione di processo e di prodotto.
La bonifica della norma
Il Pd ha acquisito in questi mesi un profilo più netto sul terreno della difesa del potere d’acquisto, sulla bonifica radicale del lavoro povero, sulla settimana corta, sul contrasto ai subappalti selvaggi, sulla sicurezza e la salute nei luoghi di lavoro. E soprattutto sul salario minimo: parte finalmente una legge di iniziativa popolare che è innanzitutto una sfida alla destra che in Parlamento ha scelto di affossare la proposta unitaria delle opposizioni. Questa agenda è la base sulla quale sfidiamo la destra: la questione sociale non può essere più appaltata a loro.
Nel 2022 in campagna elettorale Enrico Letta disse che il blairismo era sepolto e andava superato il Jobs Act. Nel 2023 Elly Schlein vince le primarie e nella sua mozione c’è il ripristino delle tutele sui licenziamenti illegittimi, dunque l’articolo 18. I nostri atti parlamentari sono sempre andati in questa direzione: c’è una proposta di legge, primo firmatario Andrea Orlando, sui licenziamenti illegittimi e una mozione unitaria (Pd, Avs, M5s) depositata alla Camera e bocciata un mese fa dalla destra dove sono scritte queste testuali parole: «Contrasto a ogni forma di precarietà attraverso verso una vera e propria “bonifica”» normativa, anche sulla base delle recenti sentenze della Corte Costituzionale in materia di licenziamenti illegittimi, a partire dalla sentenza 183/2022”».
Non c’è dunque nessuna rottura - men che meno un tradimento - nella decisione di aderire all’iniziativa del principale sindacato italiano. La strada era già stata delineata con coerenza da tempo.
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