Quelli del Pd non hanno tutti i torti: non avendo una identità sicura, un progetto, non sapendo se sono carne o sono pesce, appoggiare Moratti rischia di contaminarli. Meglio, molto meglio, la rassicurante sicurezza garantita da sonanti sconfitte
Sostenere la candidatura di Letizia Moratti alla guida della regione Lombardia? Giammai, vade retro: l’anatema agita il Partito democratico, e in particolare quello lombardo. Perché Moratti è di destra, sempre stata di destra. Il che è indubbio.
Conta poco che abbia dato le dimissioni criticando le prime misure del governo Meloni da una prospettiva liberale. Che poi abbia avuto il sostegno del Terzo polo è semmai una aggravante: quelli sono infidi voltagabbana, ostili per partito preso al Pd.
Tutto molto chiaro, in effetti. Ma cosa è chiaro? Da decenni, dall’antico centrismo degasperiano, ma forse prima ancora, dalla “svolta di Salerno” nel 1944, il sistema politico italiano si regge su accordi “consociativi”.
Ma quel consociativismo non è mai piaciuto: come scrisse un politologo illustre, Alessandro Pizzorno, «fu un bene perché ha allontanato le minacce di guerra civile; è stato un male perché ha posto le basi per un regime di corruzione».
Insomma un regime di inciuci e compromessi che tanto ricordava una vocazione originaria, quella del “trasformismo” – il termine, presto divenuto massimamente deprecatorio risale a quando, anni Ottanta dell’800, Agostino Depretis disse vedeva con favore vari deputati “trasformarsi” e unirsi alla sua maggioranza.
Ecco dunque, per reazione, anch’essa per decenni, la simmetrica ansia palingenetica che invoca il maggioritario, modello fumo di Londra, quello, dicono i suoi esegeti, che la sera stessa delle elezioni dice chi governerà.
E finalmente, grazie al Rosatellum, la sera del 25 settembre 2022 si è saputo chi avrebbe formato il prossimo governo.
Torniamo ai politologi. Uno di loro, si chiama Arend Lijphard, spiegò che in società attraversate da profonde fratture «il governo maggioritario si rivela non soltanto non democratico, ma anche pericoloso» perché accentua i conflitti.
Per la verità, l’aveva già detto Meuccio Ruini, un vecchio democratico, presidente di commissione alla Costituente, poi del Senato, gran mediatore: la vocazione dei sistemi politici e sociali fortemente disomogenei era la rottura autoritaria, l'esclusione dell'avversario, l'affermazione di una soltanto delle parti in conflitto. Meglio il sistema proporzionale, la politica degli accordi e appunto la consociazione.
Ce lo spiega appunto Pizzorno: il consociativismo è efficace quando le parti hanno identità culturali «forti, irriducibili», che «sono in grado di esigere dai loro membri una lealtà superiore a quella dovuta allo Stato». Per esempio, cattolici e protestanti, valloni e fiamminghi, magari un tempo comunisti e democristiani.
In tal caso, non ci sarà condotta compromissoria, negoziale, concordataria, che metta in crisi l'identità politica. Ma se così non è, negoziati e compromessi rischiano di erodere le identità politiche, di minarle e confonderle.
Per questo quelli del Pd hanno in sospetto gli accordi col nemico. Hanno già dato, e ne pagano le spese. Hanno visto come è andata col loro leader Matteo Renzi, in odore di eresia fin da quando da sindaco di Firenze andò a parlare col reprobo Silvio Berlusconi, addirittura a casa sua, anzi nella sua villa, definitivamente contaminandosi, tanto che tutt’ora puzza di zolfo.
Insomma non hanno tutti i torti nel Pd: non avendo una identità sicura, un progetto, non sapendo se sono carne o sono pesce, appoggiare Moratti rischia di contaminarli. Meglio, molto meglio, la rassicurante sicurezza garantita da sonanti sconfitte
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