Il 18 febbraio scorso, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, autorità delegata alla sicurezza, ha comunicato che ogni aspetto della vicenda avrebbe dovuto «intendersi classificato». Un accesso civico generalizzato, non alle informazioni segretate, ma agli atti amministrativi che hanno disposto la segretazione, può aiutare ad avere importanti informazioni
Che fine ha fatto il caso Paragon solution? Dopo il clamore suscitato dalla scoperta che alcune persone, tra cui il giornalista Francesco Cancellato e l’attivista Luca Casarini, erano state spiate mediante lo spyware Graphite, sulla vicenda è calato il segreto. Non il segreto di stato – dato che la presidente del Consiglio non l’ha apposto, ed era l’unica a poterlo fare – ma quello derivante da una non meglio precisata “classificazione”.
Il 18 febbraio scorso, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, autorità delegata alla sicurezza, con una lettera inviata al presidente della Camera, Lorenzo Fontana, ha comunicato che ogni aspetto della vicenda avrebbe dovuto «intendersi classificato», per cui il governo ne avrebbe riferito solo al Copasir.
Da quel momento, il caso è stato avvolto da un velo di opacità. Ma c’è uno strumento che forse può, almeno parzialmente, squarciarlo.
Lo sfregio al diritto all’informazione
Il caso Paragon è connotato da uno sfregio al diritto all’informazione.
Da un lato, intercettare un giornalista, il cui diritto a proteggere le proprie fonti può essere sacrificato solo in casi estremi, rappresenta una restrizione alla libertà di stampa, pilastro di ogni ordinamento democratico.
Tale libertà non è assoluta, ma per limitarla serve un bilanciamento con gli altri diritti in gioco e l’osservanza delle garanzie previste dalla legge. Non è noto se questi presidi di legalità siano stati rispettati.
L’unica cosa certa è che, in base alle regole poste da Paragon, lo spyware non avrebbe potuto essere usato nei riguardi di un giornalista. Tutto questo dovrebbe destare allarme in chiunque, ma soprattutto nei rappresentanti delle istituzioni, tenuti a renderne conto trasparentemente. Invece, hanno fatto l’opposto.
Dall’altro lato, il diritto all’informazione è stato leso sotto il profilo del diritto alla conoscenza. Il suo esercizio, a tutela della democrazia, consente alla collettività di sindacare le decisioni prese dalle autorità pubbliche. Il segreto calato sulla vicenda Paragon, invece, preclude ogni controllo.
Non vale affermare che se ne parlerà al Copasir, ove siedono parlamentari, cioè rappresentanti dei cittadini. Le sedute del Comitato si svolgono a porte chiuse. Invece, serve chiarire pubblicamente chi ha spiato un giornalista, e non solo, almeno per fugare i dubbi che si tratti di qualcuno che opera all’interno di istituzioni governative, le uniche a cui lo spyware Graphite poteva essere dato in uso.
Le domande alla presidenza del Consiglio
L’apposizione di una qualche classifica di segretezza deve seguire una determinata forma che, come spesso accade in diritto, è anche sostanza. A questo riguardo affermare – come ha fatto Mantovano, con una lettera – che ogni elemento relativo al caso Paragon e al software Graphite doveva «intendersi classificato», non comporta l’automatica secretazione.
Serve un atto amministrativo, nell’ambito di una precisa procedura, e la predisposizione di specifiche cautele tese a limitare l’accesso alle informazioni classificate, assicurandone la protezione. Quale amministrazione o quali amministrazioni hanno firmato l’atto o gli atti di classificazione, dato che in base alla legge (n. 124/2007) ha competenza a farlo solo «l'autorità che forma il documento, l'atto o acquisisce per prima la notizia»?
E qual è il livello di segretezza attribuito agli elementi della vicenda in questione, dato che per legge bisogna specificarne la modulazione tra “segretissimo”, “segreto”, “riservatissimo” e “riservato”, a seconda del grado di danno che la conoscenza di certe informazioni può recare alla sicurezza nazionale?
Queste domande andrebbero rivolte alla presidenza del Consiglio. E non solo e non tanto attraverso le pagine di un giornale, ma con una formale richiesta di accesso civico generalizzato. L’accesso dovrebbe essere teso a ottenere l’esibizione dell’atto o degli atti con cui è stata attribuita la classifica di segretezza; in alternativa, se palazzo Chigi non ne fosse in possesso, l’indicazione dell’amministrazione che ha proceduto alla secretazione – indicazione essenziale – così da poter rivolgere a quest’ultima la stessa istanza. In caso di diniego, si potrebbero attivare anche rimedi giurisdizionali.
Si tratterebbe di un accesso non agli atti secretati – che sarebbe respinto – bensì a quelli con cui la secretazione è stata disposta. Il segreto non li ha “cannibalizzati”. Sapere almeno chi ne è l’autore consentirebbe di intravedere il disegno di un mosaico – lo spionaggio di persone forse non gradite – a cui oggi mancano molti tasselli.
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