Torna alla ribalta la vicenda che vede protagonista il finanziere Pasquale Striano, distaccato alla Direzione nazionale antimafia (Dna), e l’ex sostituto procuratore, Antonio Laudati, oggi in pensione, per un presunto caso di dossieraggio. Il giudice per le indagini preliminari ha respinto la richiesta di arresti domiciliari per Striano e Laudati avanzata dal procuratore di Perugia, Raffaele Cantone, il quale ha fatto appello al Tribunale del riesame. Ma non è di questa ulteriore fase della vicenda che oggi parliamo.

È, invece, importante approfondire il profilo relativo alla posizione dei giornalisti coinvolti, tirati di nuovo in ballo in questi giorni. Le accuse loro rivolte – in particolare, concorso con il finanziere per il reato di pubblicazione di segreti di ufficio – rischiano di creare un cortocircuito riguardo al principio di tutela delle fonti.

L’attività di Striano

Sono ormai note le attività cui era adibito il finanziere, a capo del gruppo di lavoro sulle segnalazioni di operazioni bancarie sospette (Sos) trasmesse alla Dna dall’Unità di informazione finanziaria (Uif) della Banca d’Italia.

Gli analisti del gruppo Sos incrociano i nomi di persone e società presenti nelle segnalazioni con quelli inseriti in altre banche dati, per le verifiche necessarie e l’eventuale trasmissione alla direzione distrettuale competente. Le banche dati vanno da Sidna/Sidda, per correlare soggetti segnalati e procedimenti giudiziari in corso per criminalità organizzata e terrorismo, a Sdi, condivisa tra le forze di polizia, a Serpico, dell'Agenzia delle entrate, e non solo.

Striano, come chiunque tratti informazioni quali quelle contenute nelle citate banche dati, era tenuto per legge al segreto e, più in generale, all’obbligo di riservatezza relativo alle funzioni svolte.

Il pubblico ufficiale che, violando i doveri connessi alla propria funzione, riveli a terzi estranei notizie che debbano rimanere segrete o ne agevoli la conoscenza commette il reato di rivelazione di segreti di ufficio (art. 326 c.p.). Del medesimo reato può essere accusato a titolo di concorso anche il soggetto terzo, ad esempio un giornalista, che abbia istigato o indotto il pubblico ufficiale ad attuare la rivelazione indebita.

Il concorso del giornalista

Perché si configuri il concorso, quindi, serve non solo l’induzione o l’istigazione, ma anche la consapevolezza del giornalista che quelle che sta chiedendo siano informazioni sulle quali c’è un obbligo di segreto. Obbligo che, tuttavia, non grava direttamente sul giornalista, ma sul soggetto cui quest’ultimo si rivolge.

Come potrebbe tutelarsi il giornalista per non correre il rischio che, quando interpella una propria fonte, la sua richiesta possa essere considerata sollecitazione a una rivelazione indebita? Dovrebbe verificare preventivamente che l’informazione che sta chiedendo non sia coperta da una qualche forma di segreto che la legge impone alla sua fonte e, quindi, che l’informazione stessa sia liberamente accessibile. Ma in questo caso il giornalista potrebbe acquisirla senza bisogno di rivolgersi a chicchessia. Appare palese l’assurdo. E non è tutto.

La tutela delle fonti

Il giornalista ha non solo il diritto a tutelare le proprie fonti, diritto che prescinde da qualunque valutazione della legittimità delle fonti stesse, in quanto necessario per l’esercizio della libertà di stampa; ma ha anche il dovere di non rivelarle, rispettando il segreto professionale (l. n. 69/1963, art. 2, ordinamento della professione di giornalista).

Tale segreto è salvaguardato anche dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (art. 10) ed è stato ribadito dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte Edu, in particolare, dalla sentenza Goodwin contro Regno Unito, 1996), che ha riconosciuto il diritto alla protezione delle fonti giornalistiche come corollario del diritto del giornalista di ricercare le notizie. L’assenza di tale protezione – afferma la Corte – potrebbe dissuadere le fonti dall’interagire con la stampa, con la conseguenza di privare la collettività di informazioni di interesse generale.

Il rispetto della segretezza delle fonti, però, non è assoluto. Il Codice di procedura penale (art. 200, c. 3, c.p.p.) stabilisce che il giudice possa ordinare al giornalista di indicare i nomi delle persone dalle quali ha avuto notizie di carattere fiduciario nell’esercizio della propria professione, a condizione che le notizie siano indispensabili ai fini della prova del reato per cui si procede e la loro veridicità possa essere accertata soltanto attraverso l’identificazione della fonte delle notizie.

Nel caso Striano, i giornalisti non si trovano in questa ipotesi: non è stato chiesto loro di rivelare la propria fonte ai fini indicati.

I giornalisti e il caso Striano

La questione è un’altra. L’imputazione dei giornalisti parte dall’assunto che la loro fonte sia il finanziere e che essi abbiano concorso con lui nella rivelazione indebita di segreto. Qual è la conseguenza di tale imputazione? Per difendersi dall’accusa di aver spinto la fonte a rivelare informazioni coperte da segreto, essi dovrebbero necessariamente rivelare la fonte stessa. Se, invece, ne tutelassero la riservatezza, com’è loro diritto/dovere, dato che non ricorre l’eccezione prevista da c.p.p., essi dovrebbero rinunciare al diritto di difesa, garantito costituzionalmente. È palese il cortocircuito.

Nel gennaio 2000, il tribunale penale di Treviso stabilì che i giornalisti non possono essere obbligati a rivelare la propria fonte quando, attraverso tale rivelazione, corrano il rischio di autoaccusarsi di aver partecipato al reato commesso dalla fonte stessa, perché ciò sarebbe in contrasto con il divieto di auto incriminazione (l. n. 932/1969). Nel caso Striano, i giornalisti sono stati accusati di concorso in un reato e poi messi nella condizione, per potersi difendere, di violare il diritto/dovere di non rivelare la propria fonte. Il percorso è inverso rispetto al caso trattato dal tribunale di Treviso. Ma il risultato non cambia.

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