Non c’è solo Chiara Ferragni con i suoi pandori benefici. Ogni volta che si contribuisce a una causa mentre si fa shopping entrano in campo dubbi morali con i quali bisogna fare i conti
È quasi Natale, mi trovo in una città straniera, il centro pullula di turisti impegnati nell’ultima corsa agli acquisti. Entro in un grande magazzino, al secondo piano c’è un coro che canta, nella lingua locale, le canzoni di Natale più famose. Venite, fedeli, l’angelo ci invita, venite a Betlemme.
Accanto, uno stand vende piccoli gioielli: ciondoli, braccialetti. Sono carini, eleganti, e poi il 100 per cento dei profitti – dice un cartello – va a una buona causa. Nella mia decisione di comprare oppure no questi gioielli entrano in gioco vari elementi, inizialmente distinti.
Le ragioni
Il primo elemento è legato al fatto che i gioielli “mi servano”, per esempio per fare un regalo di Natale oppure perché devo assolutamente avere un ciondolo a forma di goccia: come ho fatto a vivere senza fino a oggi? Il secondo elemento riguarda il fatto che i gioielli mi piacciano.
Li guardo nuovamente e mi pare di sì, anche se non posso dire che mi piacciano molto più di quanto mi potrebbero piacere mille altre cianfrusaglie che posso trovare ovunque. Il terzo elemento è il prezzo: in questo caso, rispetto alla qualità e ai materiali, sembra un prezzo pieno, ma non esagerato. Infine, l’ultimo elemento è la beneficenza: il fatto che i profitti vadano a sostenere una buona causa.
Mentre valuto se acquistare oppure no, sul mio volto compare l’espressione di chi sta per decidere di andarsene. Arriva allora una commessa molto gentile, con i capelli biondi e due grandi occhi blu.
Somiglia molto a Chiara Ferragni (non invento nulla). Mi spiega che ogni ciondolo sostiene una causa diversa: un design, una causa. E si vede che ci tiene, e un po’ si commuove quando dice che uno dei gioielli aiuta la ricerca sul cancro e un altro invece la salute mentale. A questo punto, la beneficenza è ormai parte integrante della mia decisione di acquisto. È assai probabile che senza beneficenza, alla fine, non comprerei.
Magagne morali
Anche se il gioiello non mi sembra più molto necessario, l’idea di fare una cosa positiva (sotto Natale, poi) si è impossessata di me.
Come ovvio mi aspetto che la promessa di beneficenza sia vera e che il negozio non menta neanche sul minimo aspetto. Se il negozio mentisse, e non devolvesse TUTTI i profitti derivanti dalle vendite, di fondo starebbe facendo leva sulla beneficienza per moltiplicare i propri guadagni, e questo sarebbe molto grave: equivarrebbe a rubare i soldi ai malati, sfruttando peraltro la loro “immagine”. Non serve essere Kant per considerarlo un comportamento orribile.
Ma anche se il negozio non mente in modo spudorato, è possibile chiedersi se la beneficenza sia la reale motivazione di fondo del negozio, oppure se sia un modo per acquisire un’immagine etica, in primo luogo, e in secondo luogo per moltiplicare le vendite, catturando nuovi clienti.
Se tutti i profitti vengono donati, come dichiarato, e non c’è realmente alcun guadagno immediato, attirare nuovi clienti può comunque tradursi in una fidelizzazione futura, in guadagni futuri. Persino in questo caso si usa il valore implicito della beneficenza, derivante dalla sua risonanza emotiva sul consumatore, per trasformarlo in un guadagno che non va nelle mani di chi ne ha bisogno.
La beneficenza legata al commercio contiene sempre queste non piccole magagne morali.
Il problema
Ma mettiamo un attimo da parte il comportamento di chi vende e pensiamo a chi acquista. Non è strano che i consumatori siano attratti da prodotti che sostengono una buona causa: mentalmente si crea la sensazione di uno sconto implicito sul prodotto, oltre alla sensazione di fare del bene.
Possiamo poi farci delle domande sulle motivazioni dei consumatori. I consumatori sono motivati dal prodotto stesso, dal desiderio di contribuire a una causa o dalla vanità che accompagna i bei gesti? Inizialmente le cose sono separate, ma subito interagiscono e si fondono.
Il problema è che la fusione di queste motivazioni può oscurare lo scopo primario della beneficenza: fornire aiuto e sostegno. Quando la beneficenza diventa beneficio, e più precisamente il beneficio secondario di una transazione commerciale, quando non è puro dono, insomma, in qualche misura il gesto di donare si svuota di significato.
E se la beneficenza legata al commercio diventasse una moda, se diventasse un’abitudine, per quanto etica a monte, il gesto nel tempo si logorerà, e il concetto stesso di carità (dare senza avere nulla in cambio) perderà senso fino a smarrire i contorni originari. Compro oggetti così mi sento bene con me stessa. “Venite, vivete insieme a noi questa esperienza etica: solo per oggi con uno sconto del dieci per cento.”
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