Dalla fine del Novecento, le Corti più alte hanno assunto un ruolo tanto decisivo da indurre alcuni studiosi a parlare di “giuristocrazia”. Un fenomeno che imbriglia il legislatore e lo trasforma in notaio. È necessario che la Consulta si avveda del suo compito indifferibile di custode ed esegeta della superlegalità
Da tre decenni in qui, la composizione della Corte costituzionale è ben più che una questione di pienezza democratica: ne va piuttosto della vita politica del paese.
La “giuristocrazia”
Dalla fine del Novecento, infatti, le Corti più alte hanno assunto un ruolo tanto decisivo da indurre alcuni studiosi a parlare di “giuristocrazia” – un governo dei giudici a proiezione globale. Il ventunesimo secolo si caratterizza in effetti per il trionfo di una politica nuova, segnata dalla messe di Carte dei diritti, prodotte a livello sovranazionale, di cui le Corti costituzionali nazionali diventano esegeti e custodi.
La crescita esponenziale dei poteri dei giudici non è certo l’esito di manovre sediziose.
All’opposto, è riconducibile a due processi distinti ma correlati. Da una parte, dal secondo Novecento a oggi, si è assistito all’espansione senza precedenti del novero e della portata dei diritti. Dall’altra, in numero via via crescente, singoli cittadini, gruppi organizzati e associazioni si rivolgono ai tribunali nazionali e sopranazionali perché questi prendano in carico rivendicazioni che la politica parlamentare trascura (alcune volte per mancanza di energie, altre volte per una studiata elusione delle questioni più delicate e divisive).
Questa dinamica duplice di espansione dei diritti e della loro rivendicazione per via giudiziaria sta trasformando, in modo forse irreversibile, la funzione delle Corti costituzionali: non più arbitri ultimi della legalità, ma di fatto supplenti del legislativo, talora persino legislatori eccezionali.
Non sorprende quindi che vada riemergendo una nozione in voga più di cento anni fa, quando in tutta Europa ci si cominciava a chiedere quale fosse la pietra d’angolo dello Stato costituzionale: se il potere decisorio dell’esecutivo o il sindacato di costituzionalità delle Corti.
Si tratta della nozione di “superlegalità”, vale a dire la supremazia di un insieme di principi e valori considerati persino più stringenti che non il diritto positivo di produzione parlamentare. Una legalità che appunto “sta sopra” alle leggi positive e alla stessa Costituzione, perché di queste ispirazione vitale e chiave interpretativa.
Superlegalità
Oggi le Corti costituzionali, in un dialogo tra loro sempre più fitto, sono diventate filtri e tutrici della superlegalità incarnata dalle Carte dei diritti. I vari cataloghi vengono elaborati da istituzioni e agenzie sovrastatali, e poi applicati, interpretati e sovente ridefiniti dalle Corti.
Per i difensori più strenui del principio di sovranità parlamentare, tale dinamica è un azzardo per l’equilibrio politico degli stati democratici. Si tratta di un processo che finisce giocoforza per esautorare i parlamenti delle loro tradizionali competenze e affidarne di nuove a istituzioni prive di mandato popolare. E questi critici non hanno tutti i torti. I giudici costituzionali, dopo un lungo iter che coinvolge i tribunali ordinari, definiscono una cornice serrata entro cui il legislatore deve muovere.
La giuristocrazia imbriglia e disciplina il legislatore, trasformandolo in una sorta di notaio, quando non glossatore di leggi di fatto già imbastite dal potere giudiziario. Gli equilibri tra i poteri dello stato vanno cambiando, nonostante i diffusi rigurgiti da esecutivo corpulento, che sanno molto di ideologia da social.
Per questa ragione, è decisivo che la Corte costituzionale, oggi più che mai, assuma una postura “impolitica”, che si avveda cioè del suo compito indifferibile di custode ed esegeta della superlegalità.
Un atteggiamento meno consapevole, per quanto possa sembrar favorire ora questa ora quella forza politica, rischierebbe di soverchiare i poteri residuali delle istituzioni parlamentari e governative. Che la Corte sia impolitica: né anti-politica, virus che ammala la cultura pubblica in ogni dove, né a-politica, perché non c’è nulla a questo mondo che possa davvero vantare neutralità. Impolitica, dunque, ossia capace di limitare sé stessa a un compito che quanto più risulta erculeo tanto più richiede circospezione e misura.
La Corte lasci che la politica sbrogli da sé i propri pasticci nelle sedi deputate, senza favorirne il miopico brevetermismo. Ai membri delle Corti più elevate si richiede allora un’ispirazione quasi monacale: la capacità di vivere da anacoreti dei deserti, che rifiutano l’accordo col secolo per procurarsi un punto archimedeo impervio agli istinti rapaci della politica mondana, sempre più immonda.
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