- La Corte è il più importante presidio di tutela della legalità costituzionale contro le decisioni della maggioranza. Non è un caso che altrove non manchino tentativi del potere politico di “catturare” le proprie Corti. In Italia, tuttavia, non è necessario alcun allarmismo.
- Tra quest’autunno e la fine del 2024, cambierà notevolmente la composizione della Consulta. Ma la maggioranza politica può influenzare direttamente la nomina soltanto di un terzo dei membri della Corte, con il voto dei due terzi dei membri del Parlamento.
- La funzione contromaggioritaria della Corte è, in ogni caso, ben al riparo. Ma non è il caso di caricarla di eccessive aspettative. Non si può chiedere al giudice costituzionale di fare quello che è la politica a dover fare.
Si sa: in tempi di forte polarizzazione e contrapposizione politica, gli occhi son tutti puntati al Quirinale. E non solo alla presidenza della Repubblica, ma anche alla Corte costituzionale, che sullo stesso colle ha la sua sede, ad angolo col palazzo presidenziale. La topografia costituzionale ha le sue ragioni. Presidente e Corte sono entrambe istituzioni di garanzia – l’una politica, la seconda giuridica. Entrambe alla stessa distanza dai palazzi della politica.
E proprio la Corte è il più importante presidio di tutela della legalità costituzionale contro le decisioni della maggioranza politica al parlamento e al governo. Non è un caso, d’altronde, che altrove non manchino tentativi del potere politico di “catturare” le proprie corti – vedi Stati Uniti o Israele. In Italia, tuttavia, non è necessario alcun allarmismo. Modificare ruolo e funzioni della Corte richiederebbe una revisione costituzionale che non è facile, e che non compare in alcuna agenda politica. E anche per quanto riguarda la composizione dell’organo, i rischi, se esistono, sono molto bassi.
La maggioranza politica, infatti, potrebbe influenzare direttamente la nomina soltanto di un terzo dei membri della Corte. Di quei cinque, cioè, che vengono eletti dal Parlamento, mentre altri cinque sono eletti dalla magistratura e gli ultimi cinque nominati dal Quirinale. E peraltro, in Parlamento, è richiesta il voto dei due terzi dei membri (che diventa dei tre quinti dopo il terzo scrutinio), quindi è chiaro che la maggioranza da sola non ce la fa.
È il sistema stesso, dunque, che garantisce che anche i membri della Corte eletti dalla politica abbiano una «rappresentatività trasversale», come ricordava la presidente Sciarra in una recente intervista. Ciò non toglie, tuttavia, che, sin da subito, si siano instaurate per via di prassi delle convenzioni politiche di “redistribuzione” dei giudici di nomina parlamentare tra le diverse forze politiche.
Ai tempi della Prima Repubblica, con qualche eccezione, la regola era due alla DC, e le altre tre divise tra PSI, PCI, e liberali (poi repubblicani). Le cose sono evidentemente cambiate con la Seconda Repubblica, senza formule precise, ma stabilizzandosi tendenzialmente su un 3+2 tra maggioranza e opposizione.
A questo Parlamento toccherà presto, quando in novembre scadrà proprio la Presidente Sciarra, eletta dal Parlamento nell’autunno 2014. Pochi giorni prima di lei termineranno il mandato altri due giudici, che però erano stati nominati dal Presidente della Repubblica, e dunque toccherà a lui sostituirli. C’è da capire se Mattarella attenderà la scelta del Parlamento o se giocherà d’anticipo, potendo ragionevolmente prevedere quale sarà l’area politica che sponsorizzerà il giudice di nomina parlamentare.
D’altra parte, la scelta di riservare un terzo dei giudici al Quirinale è pensata proprio in funzione di riequilibrio dell’organo, e certamente il Presidente considererà che, a dicembre 2024, scadranno altri tre giudici, tutti di nomina parlamentare, e dunque toccherà ancora alla politica. Una occasione (relativamente) ghiotta per la maggioranza, tanto più che poi non ci saranno altri giudici in scadenza e quindi da rinnovare fino a novembre 2026.
La funzione contromaggioritaria della Corte è, in ogni caso, ben al riparo. Ma non è il caso di caricarla di eccessive aspettative. Molte volte, nei mesi scorsi, le perplessità dinanzi ad alcune scelte della maggioranza politica hanno preso la forma ottativa di un giudizio di costituzionalità. Ma ci sono due cose da tenere in conto. La prima è la difficoltà tecnica. Una legge può essere portata alla Corte soltanto se il dubbio di costituzionalità nasce nel corso di un procedimento giudiziario concreto.
Insomma, una sorta di incidente di percorso, in cui ad un certo punto il giudice, che deve applicare proprio quella legge per risolvere il caso, sospetti ragionevolmente della sua legittimità costituzionale. Cosa non scontata, e che comunque richiede i suoi tempi. E poi c’è un secondo, fondamentale, elemento. Non ogni scelta inopportuna o non condivisibile dal punto di vista politico integra una violazione costituzionale. Anzi, evidentemente è vero il contrario: la maggior parte delle scelte legislative non integrano una violazione della Costituzione.
Tanto più quando si tratta di fare un bilanciamento tra diritti e interessi, la Corte ha ben poco margine nello scrutinio della ragionevolezza della scelta legislativa. Certe decisioni, in definitiva, sono tutte politiche: e, su questo, la Corte non interverrà. D’altra parte, non si può chiedere al giudice costituzionale di fare quello che è la politica a dover fare. Altrimenti, smetterebbe di essere quella garanzia che è.
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