Non poteva reggere a lungo la coabitazione pacifica tra Beppe Grillo e Giuseppe Conte. Le tensioni di questi giorni riflettono due visioni totalmente diverse, due concezioni della politica inconciliabili. E rischiano di provocare fratture interne tali da incidere sul futuro dell’opposizione.

Il Movimento 5 stelle è nato su una agenda che miscelava anti-politica beffarda, veicolata con maestria da un comedian di qualità quale Beppe Grillo, con una utopia iperdemocrartica e tecno-bucolica, nel senso che il progetto di trasformazione ecologica della società doveva essere guidato dall’innovazione non dal nostalgico e regressivo recupero di un passato da cartolina e quindi fittizio.

I due fondatori, Grillo e Casaleggio, ciascuno con il proprio passo, hanno creato un movimento che rispondeva a domande diverse, non necessariamente contraddittorie: la pulizia e il rinnovamento della politica innanzitutto, ma anche la modernizzazione informativa e produttiva, e infine la giustizia sociale attraverso il reddito di cittadinanza. Questo patchwork di offerte politiche toccava segmenti diversi della società, e infatti nelle varie fasi se ne sono succeduti vari.

Al suo primo apparire, elezioni regionali 2010, hanno seguito il M5s componenti giovanili acculturate e attive nelle professioni innovative: e questo era particolarmente evidente laddove aveva inizialmente sfondato, in Emilia-Romagna. In seguito, grazie anche ad un ulteriore disvelamento di fenomeni corruttivi nei partiti tradizionali, ha dilagato il richiamo anti-partitico raccogliendo consensi a 360 gradi. E infine, con la svolta laburista del reddito universale, il suo seguito si è proletarizzato e meridionalizzato.

La cavalcata travolgente del M5s, dal 25 per cento del 2013 al 32 per cento del 2018, con conseguente ingresso a Palazzo Chigi, estraendo dal cappello il professor Giuseppe Conte, un tranquillo professore di diritto, cresciuto nell’alveo della democrazia sociale cattolica, ha finito per travolgere il partito.

Il fondatore, privato dell’appoggio del suo alter ego con la morte di Casaleggio, non ha saputo/voluto gestire questo successo, troppo repentino e troppo grande per una struttura organizzativa informe e una classe politica tra l’inesperto e l’improbabile. Consapevole e/o spaventato da questo compito Grillo si è fatto subito da parte , già nell’estate del 2014, lasciando spazio ai suoi giovani dioscuri, Di Maio e Di Battista.

Da un certo punto di vista è encomiabile quanto raro che il leader carismatico di un partito lasci le redini del suo partito, rimanendo inevitabilmente il punto riferimento ma senza la centralità e presenza di un tempo. Solo che gli eredi sono andati per la loro strada. Il primo, diventato ufficialmente capo politico alla vigilia delle elezioni del 2018, dopo l’esperienza ministeriale è entrato nell’establishment europeo, mentre il secondo ha abbandonato le stanze parlamentari e la politica attiva per la carriera giornalistica e di opinionista. Rimaneva in campo il premier per caso. Che, in pochi mesi aveva improvvisamente assunto un profilo politico inedito. Prima schiaffeggiando in pieno Senato colui che nell’estate del 2014 appariva l’uomo forte della politica nazionale, Matteo Salvini, e poi gestendo con efficacia, soprattutto sul piano emotivo, la pandemia, tanto da ottenere altissimi consensi nell’opinione pubblica.

La caduta del suo governo e il ritorno in campo di Grillo per siglare l’accordo di governo con Draghi, bypassando lo stesso Conte ha posto le premesse per quel conflitto che sta esplodendo ora. Già allora era montata la polemica tra i due per il progetto di nuovo statuto, tema che ora ritorna con toni ancora più accesi. Il rischio di una spaccatura questa volta è reale. Se così fosse per Schlein e compagni sarebbero guai perché un Movimento 5 stelle indebolito da fuoriuscite, e in caduta libera nei consensi, mette in difficoltà lo schieramento di sinistra.

Viene a mancare una componente che è in grado raccogliere il sostegno di strati sociali ai quali il Pd non arriva ancora, per quanto stia recuperando l’immagine di difensore degli interessi delle classi popolari. Il M5s, grazie al suo messaggio dai toni populisti e all’insistenza su temi sociali è l’ interlocutore di ceti sottoprivilegiati che, benché portatori di valori e riferimenti ideali molto differenziati, sono comunque attratti da quell’aura di estraneità e alterità all’establishment che tuttora identifica i pentastellati. Un’alleanza alla quale verrebbe a mancare l’apporto di un partito così peculiare, in grado di intercettare umori variegati e di convogliarli a sinistra, si troverebbe in gravi difficoltà nello scontro con la destra.

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