La narrazione del presidente russo nel “discorso alla nazione” tenuto la sera del 21 febbraio scorso è destinata a passare nella storia delle “false rappresentazioni” che hanno tentato, in maniera scoperta e a dir poco grossier, di giustificare il “casus belli”.
Con una inedita rivisitazione di Lenin, Putin giunge persino ad accusarlo di una grave colpa: non fa riferimento alle critiche sui metodi autoritari e violenti della dottrina leninista, ma piuttosto gli imputa di avere promosso «l’autodeterminazione» delle nazioni all’interno dell’Unione Sovietica, specie per l’Ucraina che «è stata creata dalla Russia e ne è parte integrante, per la sua storia e la sua cultura». Ed ha aggiunto: «l’Ucraina non esiste se non all’interno della Russia».
Nulla di nuovo per chi ha letto l’articolo che lo stesso Putin aveva pubblicato nel luglio scorso sotto il titolo “Sull'unità storica di russi e ucraini". Qui si ritrova tutta l’agiografia dell’impero zarista, dei miti del panslavismo, della “Terza Roma” cristiano-ortodossa, dell’unità linguistica: «Russi, ucraini e bielorussi sono tutti discendenti dell'antica Rus', che era il più grande stato d'Europa». Ma proprio sulla cultura della grande Rus’ gli storici più rigorosi sottolineano che questa è nata a Kiev nel Medioevo, per poi diffondersi nel resto dell'Est: in sostanza, prima si è affermata Kiev, e solo dopo è venuta Mosca, non il contrario.
I riferimenti storici sulle origini e identità delle Nazioni sono sempre un terreno minato, specie se poi con il pretesto di questi si vuole tentare una destrutturazione dello status quo, inteso questo soprattutto in senso giuridico. Sarebbe come se richiamandosi alla grandezza dell’Impero Romano, del Sacro Romano Impero, dell’Impero Napoleonico, o alle glorie delle grandi potenze coloniali, qualcuno ancora oggi avesse la pretesa di sostenere rivendicazioni territoriali e identitarie.
Putin stesso sarà stato consapevole della inconsistenza delle sue pretese, e allora ha introdotto l’altro argomento diretto a screditare l’intero apparato statale dell’Ucraina.
Ha accusato Kiev di ricercare la guerra con la Russia, di avere messo in atto una vera e propria persecuzione - precedentemente aveva parlato di «genocidio» - nei confronti delle minoranze russe del Donbass, di fare «peggio dei suoi padroni occidentali», di avere un governo corrotto, «in mano a degli oligarchi anti-russi», e a gruppi di «neo-nazisti e terroristi anti-russi».
Sulla base di queste premesse, enfatizzando anche l’esodo dei civili dal Donbass diretti in Russia, Putin ha quindi affermato il «riconoscimento» unilaterale delle «Repubbliche Popolari» di Donetsk e di Lugansk, e disposto il dispiegamento delle forze russe in un’operazione di «peacekeeping», concordata con i due autoproclamati leader dei territori secessionisti.
Di fronte a questi scenari, la valutazione di quali siano le reali intenzioni di Putin non è univoca. I più ottimisti prospettano che l’obiettivo di Mosca sia quello di partire da quest’atto di forza per adoperarlo come arma nelle future trattative che dovranno comunque essere negoziate, anche con riferimento alle annunciate sanzioni internazionali. Ma non si possono escludere altre situazioni più gravi.
Il rischio evidente è che l’intervento della Russia non si limiti alle regioni di Donetsk e Lugansk, di fatto già controllate e popolate da una maggioranza filo-russa, che ora sono “riconosciute” autonome sebbene unilateralmente, una circostanza che già di per sé è gravida di conseguenze sul piano del diritto internazionale, quanto meno nell’aver bloccato il processo diplomatico avviato otto anni or sono con gli accordi di Minsk.
Come sostiene l’intelligence di Biden, Mosca potrebbe anche voler estendere con gli strumenti della guerra ibrida l’attacco a Kiev, mirando ad esempio ad insediare un nuovo governo filo-russo.
La capitale e il resto del territorio dell’Ucraina sono stati già oggetto in queste settimane di continui attacchi informatici, blocchi nell’energia elettrica, centinaia di violazioni del cessate il fuoco sui confini sul Donbass, per non parlare delle continue attività di disinformazione.
E non può escludersi ancora qualcosa di più serio: l’iniziativa sull’Ucraina potrebbe anche rappresentare una prima mossa per sondare le reazioni dell’Occidente, e valutare come sfruttare le debolezze e le divisioni dell’avversario per meglio realizzare il disegno, ormai scoperto, di riaffermare, con gli stessi metodi, l’egemonia russa nell’area dell’Europa orientale e dell’Asia centrale, almeno in buona parte del compianto territorio dell’ex Unione Sovietica.
È dunque giunto il momento che la comunità internazionale si adoperi per ribadire con fermezza alcuni punti essenziali.
Sotto il profilo del diritto internazionale la prolusione di Putin rappresenta una vera e propria aberrazione dei suoi principi fondamentali. Così come sono facilmente confutabili gli argomenti adoperati da Putin per sottoscrivere i due distinti “Ordini esecutivi” sul riconoscimento unilaterale delle «Repubbliche Popolari» di Donetsk e di Lugansk. Né tanto meno ha fondamento giuridico il disposto intervento militare russo nell’area, ora dissimulato sotto forma di “peacekeeping”.
I principi fondamentali che devono richiamarsi sono innanzitutto riconducibili alla norma consuetudinaria del rispetto della “sovranità territoriale” di uno Stato, in questo caso dell’Ucraina, soggetto autonomo e distinto di diritto internazionale, riconosciuto nella sua piena integrità territoriale e dei confini dalle Nazioni Unite, dalle altre principali organizzazioni internazionali e dalla comunità degli Stati.
La Carta delle Nazioni Unite all’articolo 2 paragrafo 4 impone in particolare agli stati di astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza dirette «contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato».
La retorica delle rivendicazioni storiche sulla comune «madre Russia» e le narrazioni sulla difesa delle minoranze di etnia russa non possono giustificare alcun legittimo “casus belli”, neanche in nome di un supposto principio di “autodeterminazione dei popoli”.
Nel diritto internazionale il richiamo a tale principio, che legittima le cosiddette “guerre di liberazione nazionali”, è ammesso solo in determinate circostanze, ovvero quando risulta acclarato che “i popoli” sono costretti a lottare «contro la dominazione coloniale e l’occupazione straniera e contro regimi razzisti».
La regola si rinviene in particolare nel I Protocollo addizionale del 1977 alle Convenzioni di Ginevra, all’articolo 1 del paragrafo 4, e nel Patto sui diritti civili e politici del 1996, all’articolo 1. Il riferimento alla nozione di “popolo” e il richiamo ai soli casi indicati esclude pertanto che il “diritto di autodeterminazione” possa essere esteso alle minoranze etniche, che possono reclamare comunque diritti civili e politici in forme di autonomia amministrativa e rappresentanza politica, senza porre però in discussione l’integrità dello Stato di appartenenza.
A stretto rigore, dunque, salvo i casi citati di dominazione coloniale, regime razzista, o occupazione straniera, nel diritto internazionale rimane inviolabile il principio della sovranità e della integrità territoriale degli Stati, e non può declinarsi un “diritto alla secessione”.
L’autodeterminazione non è quindi riconoscibile nemmeno a «movimenti secessionisti che facciano capo ad un popolo che coesiste insieme ad altri in uno Stato federale indipendente» (così Natalino Ronzitti in Diritto internazionale dei conflitti armati, 2017).
Vale anche ricordare che questi principi sono stati ribaditi nel più recente dibattito della comunità internazionale che ha portato all’approvazione dell’articolo 8 bis dello Statuto della Corte penale internazionale, negli emendamenti adottati a Kampala nel 2010, ed entrati in vigore sul piano internazionale dal 2012.
In questa norma si definisce con chiarezza il crimine di “aggressione internazionale”, inteso come «l’uso della forza armata da parte di uno Stato contro la sovranità, l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di un altro Stato, o in qualunque altro modo contrario alla Carta delle Nazioni Unite».
La norma, nel richiamare la Risoluzione 3314 (XXIX) dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 14 dicembre 1974, enuclea poi quali condotte debbono considerarsi “atti di aggressione”, che è il caso di richiamare integralmente:
a) l’invasione o l’attacco da parte di forze armate di uno Stato del territorio di un altro Stato o qualunque occupazione militare, anche temporanea, che risulti da detta invasione o attacco o qualunque annessione, mediante l’uso della forza, del territorio di un altro Stato o di parte dello stesso;
b) il bombardamento da parte delle forze armate di uno Stato contro il territorio di un altro Stato o l’impiego di qualsiasi altra arma da parte di uno Stato contro il territorio di un altro Stato;
c) il blocco dei porti o delle coste di uno Stato da parte delle forze armate di un altro Stato;
d) l’attacco da parte delle forze armate di uno Stato contro le forze armate terrestri, navali o aeree di un altro Stato o contro la sua flotta navale o aerea;
e) l’utilizzo delle forze armate di uno Stato che si trovano nel territorio di un altro Stato con l’accordo di quest’ultimo, in violazione delle condizioni stabilite nell’accordo, o qualunque prolungamento della loro presenza in detto territorio dopo il termine dell’accordo;
f) il fatto che uno Stato permetta che il suo territorio, messo a disposizione di un altro Stato, sia utilizzato da quest’ultimo per commettere un atto di aggressione contro uno Stato terzo; g) l’invio da parte di uno Stato, o in suo nome, di bande, gruppi, forze irregolari o mercenari armati che compiano atti di forza armata contro un altro Stato di gravità tale da essere equiparabili agli atti sopra citati o che partecipino in modo sostanziale a detti atti.
Per ultimo, è il caso di menzionare un altro importante riferimento del diritto internazionale che rende ancora più stringenti tali principi in un preciso quadro istituzionale e giuridico che, non a caso, è stato più volte richiamato come base di discussione per intraprendere la de-escalation della crisi in Ucraina. Si tratta degli obblighi internazionali, tuttora vigenti e pienamente validi perché regolarmente sottoscritti negli Accordi di Helsinki del 1972, allorquando con la Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (Csce) si lanciò il dialogo tra Est e Ovest.
Il processo non si fermò e portò poi all’idea di stabilire un sistema permanente di «misure di fiducia e sicurezza» - che riguardano anche precise limitazioni negli armamenti, negli schieramenti e delle esercitazioni militari - nella Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), l’organizzazione regionale che riunisce 57 Paesi, inclusa la Russa di Putin, con l’obiettivo di rafforzare il foro negoziale sulla distensione e sulla pace «da Vancouver a Vladivostok».
Il documento principale di questo importante quadro giuridico è l’Atto finale di Helsinki in cui sono chiaramente tratteggiati principi e obblighi giuridici inderogabili, richiamati in alcuni specifici titoli, che è opportuno richiamare: «I. Eguaglianza sovrana, rispetto dei diritti inerenti alla sovranità; II. Non ricorso alla minaccia o all'uso della forza; III. Inviolabilità delle frontiere; IV. Integrità territoriale degli Stati; V. Risoluzione pacifica delle controversie VI. Non intervento negli affari interni». La lettura integrale di questi titoli potrà consentire a chiunque di dirimere ogni dubbio su come la Russia abbia travalicato tutti i limiti.
Sarà il caso che la comunità internazionale, oltre che a comminare le giuste sanzioni, impartisca qualche lezione di storia e ricordi bene a Putin e ai suoi temerari ministri degli Esteri, Lavrov, e della Difesa, Šojgu, qualche norma di diritto internazionale fondamentale.
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