Esponenti della maggioranza ripetono in questi giorni che i giudici starebbero ostacolando l’attuazione delle politiche migratorie del governo.

Di fatto, è vero l’opposto. È l’esecutivo che, con il recente decreto-legge “paesi sicuri” (n. 158/2024), prova a rendere più difficoltoso il lavoro dei magistrati. Sulle modalità usate per ottenere questo risultato dovrà pronunciarsi la Corte di Giustizia dell’Unione europea, a seguito della richiesta del 4 novembre scorso da parte del tribunale di Roma. Siccome tali modalità sono passate quasi sotto silenzio, serve spiegarle con chiarezza.

La lista dei paesi sicuri

Il 7 maggio scorso, con un decreto interministeriale (Esteri, Interno e Giustizia) era stata aggiornata la lista dei Paesi di origine sicuri, aumentandone il numero rispetto a quella precedente. Ciò affinché sempre più richiedenti protezione internazionale fossero assoggettabili a procedura accelerata - caratterizzata da automatismi decisionali e, quindi, da forti limitazioni delle garanzie per i migranti - l’unica applicabile in Albania. I paesi erano stati valutati come sicuri sulla base di schede informative relative a ciascuno di essi, richiamate nel decreto. Tali schede, pur non essendo materialmente allegate a quest’ultimo, erano state rese note a seguito di una richiesta di accesso da parte dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione.

Con il citato decreto-legge del 23 ottobre scorso, sono stati eliminati dall’elenco precedente tre paesi che presentavano aree non sicure, nonostante la Corte Ue, con una sentenza del 4 ottobre, avesse affermato che la sicurezza deve riguardare ogni categoria di persone, oltre che tutto il territorio.

L’ostacolo ai giudici

Il nuovo decreto-legge, a differenza del previgente decreto interministeriale, non fa più alcun cenno alle schede-paese, né riporta le specifiche fonti informative utilizzate dal governo per la designazione dei paesi come sicuri. La mancata esplicitazione degli elementi informativi e dei criteri usati per tale designazione ostacola la verifica, da parte sia della difesa del migrante sia dei giudici, circa la correttezza della designazione stessa e, conseguentemente, dell’applicazione della procedura accelerata di frontiera.

In altre parole, l’assenza di indicazioni, nel recente decreto, circa le modalità con cui il governo è arrivato a definire un paese come sicuro priva i giudici di riferimenti utili a valutare l’attendibilità, la fondatezza e l’attualità della sicurezza stessa. Il fine dell’esecutivo è evidentemente quello di far prevalere la presunzione in base a cui chi provenga da un paese qualificato come sicuro sia considerato automaticamente come non avente diritto all’asilo, senza possibilità che i giudici possano interferire. Il punto è cruciale, e rappresenta il motivo per cui questi ultimi si sono rivolti alla Corte Ue.

Il rinvio alla Corte di Giustizia Ue

Il tribunale di Roma ha chiesto alla Corte europea se il legislatore nazionale debba esplicitare fonti informative, metodo e criteri di giudizio adoperati per indicare un Paese come di origine sicuro. L’opacità del nuovo decreto circa tali elementi comporta, secondo il tribunale, la difficoltà per i giudici di esprimere un giudizio sulla fondatezza dell’indicazione stessa, e ciò potrebbe essere incompatibile con il diritto dell’Unione.

I giudici hanno chiesto altresì alla Corte di sapere se il magistrato, per valutare la designazione di un Paese come sicuro, possa servirsi di proprie fonti informative qualificate (C.O.I. - Country of Origin Information) al fine di confrontare i relativi elementi di conoscenza con quelli usati dal legislatore, qualora quest’ultimo li abbia esplicitati; o, nel caso in cui non l’abbia fatto, per svolgere un autonomo vaglio circa tale designazione.

Se al giudice non fosse concesso di accertare in concreto la sicurezza del paese, e quindi la legittimità dell’applicazione della procedura accelerata, le garanzie del richiedente asilo sarebbero significativamente ridotte, sul piano sia amministrativo che di difesa giudiziaria. Eppure è proprio ciò che il governo sembra aver voluto ottenere, con buona pace del diritto a un ricorso effettivo, sancito in convenzioni internazionali, spettante al migrante.

Sulle questioni esposte dovrà pronunciarsi la Corte Ue, destinataria di vari rinvii pregiudiziali riguardo al nuovo decreto paesi sicuri. Con tale decreto l’esecutivo riteneva di aver “blindato” l’elenco di tali paesi. Avevamo scritto sin dall’inizio che così non sarebbe stato, e fatti lo dimostrano. Ora non resta che attendere le decisioni della Corte, vincolanti per tutti i giudici. Ai governanti nazionali non basteranno fantasiose soluzioni normative per riuscire a sottrarsene.

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