Questa è una storia piena di forse. Insieme con il nome di Roberto Mancini, nelle stesse righe, ieri mattina l’avverbio è apparso in trentadue articoli diversi su quindici giornali nazionali differenti, compreso questo. Il guaio è che ogni versione si porta tuttora dietro anche un però
Questa è una storia piena di forse. Insieme con il nome di Roberto Mancini, nelle stesse righe, ieri mattina l’avverbio è apparso in trentadue articoli diversi su quindici giornali nazionali differenti, compreso questo.
Forse se n’è andato per Bonucci, forse se n’è andato per Buffon, forse se n’è andato perché era scontento dei cambiamenti nel suo staff, forse se n’è andato perché l’Arabia Saudita gli offre 40 milioni. Chi lo sa. Il guaio è che ogni versione si porta tuttora dietro anche un però. Forse e però, però e forse.
Eppure, mentre parliamo di mistero, Roberto Mancini senza alcun dubbio, senza alcun margine di incertezza, si è preso il ruolo del cattivo nella storia. È stato deludente, senza stile, acido, pavido, cinico, irrispettoso. Un traditore. Senza se, senza ma, senza forse, senza però.
Può darsi (tanto per restare in tema), del resto lui non ci aiuta. Ha scelto di tacere. Ha scritto una frase ovvia su Instagram e amen. «Una scelta personale». Per forza che è personale, di chi doveva essere, gli ha replicato Arrigo Sacchi, gelido, sebbene in vita sua abbia sentito bruciare due volte sulla pelle l’urgenza di andarsene, quel fuoco che può scoppiare in un attimo oppure bruciacchiarti poco alla volta.
Forse – di nuovo, eccolo qua – forse Mancini non voleva dire scelta. Voleva dire: «Un bisogno personale». Il più blindato degli scrigni. L’inspiegabile è nell’occhio di chi guarda, mai nella testa di chi decide. C’è uno spazio segreto in ognuno di noi, una scatola nera che registra echi e dissonanze tra ciò che sentiamo e come ci mostriamo. Se nella scatola qualcosa stride, il disagio viene a bussare.
Disagio
Disagio è quella parola che nell’etimologia (dis-adiances) descrive una mancata aderenza, una distanza. Chi ha conosciuto meglio Roberto Mancini nei suoi 42 anni pubblici di calcio, sa del suo bisogno di sentirsi circondato da facce e voci a cui poter mostrare la nudità della scatola nera.
Chi gli ha parlato in queste ore, ha misurato il suo spaesamento per un nuovo contesto, nel quale non avrebbe più mescolato il lavoro alle cene con Nuciari, Lombardo, Evani, Sandreani.
Quando ti senti una mosca sotto un bicchiere, non ha molto senso spiegare al mondo cosa sta capitando, cosa gli dici, chi lo capisce. «Una scelta personale».
I motivi paiono sempre futili a chi guarda, sono insopportabili a chi li vive. La madre di Mancini dalle Marche dice: «Non ha superato la morte di Vialli». Forse c’è pure questo.
Resisti, pensi alle responsabilità che ti hanno dato, sei una tazza sbeccata, non sorridi, reggi finché ne hai.
La scatola nera è vuota di stimoli, ma il palcoscenico esige che tu sia efficiente, misurato, gentile, razionale, il palcoscenico chiede di tener nascosti i bisogni. Se anche dietro la prossima curva fossero nascosti davvero i 40 milioni dell’Arabia, tutto questo non cambierebbe. Ognuno interpreta il disagio a modo suo. Chi resiste, chi rompe, chi aspetta di avere una via d’uscita per andarsene. I bisogni non hanno un prezzo. I nostri di sicuro. Vai a capirli, nelle vite degli altri.
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