Dagli anni Quaranta circolano alcune leggende nere che rappresentano il tentativo di manipolare la storia distorcendo i fatti e minimizzando quelli più indicibili perché c’è un variegato mondo che non ha accettato la sconfitta, non ne ha compreso le ragioni, e continua a pensare che tutto quello che c’era prima era meglio di quello che è venuto dopo. Un libro ci accompagna attraverso questo viaggio
Tra gli anni Quaranta e Cinquanta alcune pubblicazioni hanno segnarono l’avvio di un percorso di rivalutazione del fascismo che avrebbe fatto una lunga strada nella direzione di costruire una memoria pubblica del paese in cui Benito Mussolini, il fascismo, gli accadimenti del lungo Ventennio, venivano raccontati in modo molto diverso dai fatti per come s’erano svolti.
Il libro di Andrea Martini, Fascismo immaginario. Riscrivere il passato a destra, edito da Laterza, è davvero prezioso perché ci prende per mano e, passo dopo passo, ci accompagna in un viaggio molto lungo alla ricerca di quelle che io credo si possano definire leggende nere, che rappresentano il tentativo di manipolare la storia distorcendo i fatti e minimizzando quelli più indicibili perché c’è un variegato mondo che non ha accettato la sconfitta, non ne ha compreso le ragioni, e continua a pensare che tutto quello che c’era prima era meglio di quello che è venuto dopo. È questa incapacità di fare i conti con il passato, spesso con il proprio vissuto, che ha spinto all’invenzione del passato stesso, alla rimozione, e alla sostituzione di quanto è accaduto con altro.
«Esuli in patria»
«Esuli in patria» è il mantra che è ampiamente circolato, come se i fascisti fossero vissuti nella più totale esclusione, marginalizzati, come lasciava intendere il mensile “La voce della fogna”. Che la forma mentis dei fascisti avesse questo sentimento è vero, ma è anche vero che la storiografia ha mostrato come la loro agibilità politica fosse molto elevata.
«I fascisti inoltre si sarebbero reinseriti nel nuovo corso senza difficoltà, anzi rivestendo, o continuando a rivestire a seconda delle circostanze, incarichi di rilievo» annota Martini. Del resto il Msi nacque e si affermò per dare voce a quel mondo di vinti, e non solo a loro perché l’originalità di quel partito è data dal fatto di non essere stato solo un’accozzaglia di reduci.
Lo stesso Giorgio Almirante si vantò del sostegno che il Msi aveva dato all’elezione a presidente del Consiglio di Pella, Zoli, Segni, Tambroni. Altro che esuli in patria.
Eppure loro vissero la stagione dell’epurazione come un dramma nonostante il fatto che l’amnistia voluta da Palmiro Togliatti, il capo del Pci, avesse colpito solo i rami bassi delle complicità anche perché nel frattempo il clima era cambiato, era iniziata la Guerra fredda che aveva come bersaglio i comunisti e come principali alleati i fascisti, cioè i nemici d’un tempo. Ma questi scritti sembrano vivere in un mondo a parte, con la testa rivolta all’indietro, dove la Guerra fredda non è mai esistita.
Un passato tutto loro
È come se vivessero in un passato tutto loro. Uno dei punti più originali del libro è quello di aver individuato le responsabilità anche degli anti-antifascisti che hanno fornito una copertura e una lettura più accettabile fungendo da trait d’union con le interpretazioni a volte esasperate dei fascisti.
L’operazione di “falsificazione storica” è stata possibile per la mole delle pubblicazioni, per il ruolo giocato da personaggi come Duilio Susmel, Giorgio Pisanò e, dal lato degli anti-antifascisti, Indro Montanelli, Giovannino Guareschi, Paolo Monelli, Leo Longanesi e i più recenti Giampaolo Pansa e Bruno Vespa.
L’elenco che fa Martini di questo travisamento della storia, di «un fascismo immaginario, assai distante da quello reale», è davvero lungo. Si comincia sostenendo che i vincitori stavano «restituendo una versione artefatta del recente passato».
Poi si esalta la «natura geniale» di Mussolini, che «riuscì ad imporre al mondo il rispetto della Nazione», e la sua dittatura «che aveva fatto sognare gli italiani».
Mussolini viene presentato da Montanelli come un «buonuomo» depotenziando «la carica autoritaria del duce». Moelli «aggirò volutamente nodi quale quello della dimensione violenta e liberticida del dittatore» che «pensava come noi, faceva quello che ci si aspettava che facesse».
Quanto a Matteotti, Mussolini era completamente estraneo all’omicidio. Sull’impresa coloniale italiana Montanelli negò a lungo l’uso delle armi chimiche, altri magnificarono l’Italia civilizzatrice e ignorarono massacri, violenze, stupri e stragi. Sulle leggi razziali si fece cadere tutta la responsabilità su Hitler; e Longanesi le «bollò come di importazione tedesca». Si esaltò il ruolo della Repubblica sociale italiana, «simbolo di pacificazione», aggiungendo che ebbe anche dei limiti.
Edulcorare il regime
Si potrebbe continuare a lungo, e Martini pagina dopo pagina decostruisce e demolisce tutte le false rappresentazioni del fascismo annotando che «il discrimine perché la parola fascista tornasse dicibile consisteva nel negare o quanto meno attenuare, la componente violenta del regime».
Tutto ciò è potuto accadere perché alcune case editrici svolsero un ruolo importante, una per tutte Longanesi «dalla parte dei vinti», così come molte riviste e in particolare i rotocalchi diffusi nelle edicole. Si fece di tutto per «rivalutare il fascismo».
La letteratura fascista e filofascista, è la conclusione amara di Martini, ha «inciso sulla scena culturale oltre che politica» come mostra la riluttanza «a ricorrere tanto alla categoria di fascismo quanto a quella di estrema destra quando si tratta di descrivere certi soggetti politici e determinate ideologie presenti oggi sulla scena nazionale».
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