Sui social in questi giorni si discute di quanti messaggi WhatsApp sia lecito scambiarsi fra innamorati o ex tali. La causa sono gli articoli di stampa sul numero dei messaggi inviati da Filippo Turetta a Giulia Cecchettin, con particolare insistenza sul messaggio della buonanotte, richiesto da Turetta, negato da Cecchettin.

Quelle che erano (o sembravano) leziose sdolcinatezze si trasformano in (si rivelano) modalità di controllo e abuso. Le relazioni affettive diventano dominio e persecuzione. Peynet un inquietante noir. L’ambiguità non attenua niente.

Il controllo abusante e la profonda dipendenza affettiva, la mancanza di orizzonti alternativi, per Turetta, rispetto alla relazione con Giulia Cecchettin sono fatti. Se sia o no stalking dal punto di vista giuridico lo stabiliranno i giudici.

Amare o dominare

ANSA

Noi che abbiamo accanto persone come Turetta e Cecchettin, che siamo maschi, che abbiamo avuto e abbiamo storie d’amore forse molto simili, ma senza quel sovrappiù di controllo e quell’orrendo finale (fortunatamente), dobbiamo capire se la differenza di grado fra l’abuso e il normale interesse per l’altra sia sufficiente a conservare intatta la differenza fra la deriva controllante e la naturale dipendenza insita nell’amore romantico.

Che cosa separa il ragazzo perbene innamoratissimo, che recita la commedia del cavalier servente, del cicisbeo, dell’innamorato servizievole, dell’amante galante e il maschio che vuole asservire e dominare, che prende la sua solitudine, il suo bisogno turbato d’affetto e ne fa arma, perché si sente insidiato dalla libertà femminile e vuole annullarla? È una differenza di qualità o solo di grado? Siamo diversi o solo più fortunati?

Se le donne possono dire, e l’hanno detto, di essere tutte Giulia Cecchettin (e soprattutto di essere la sua forte, limpida sorella Elena), e alcuni maschi (forse più anziani) possono dire di essere tutti Gino, il padre, perché i maschi più giovani, che hanno relazioni con giovani donne, che ne escono magari malconci, non dovrebbero temere di essere tutti Filippo Turetta?

Tre vie

Ci sono tre vie, di fronte a noi. Una è rassegnarsi alla colpa collettiva e al destino di specie, per così dire. Nascere maschi è una malattia incurabile, come dice Edoardo Albinati ne La scuola cattolica (Rizzoli, 2016). Non c’è niente da fare. Le donne devono solo difendersi. I padri devono mettere al riparo le figlie da ragazzi simili a quelli che loro stessi sono stati.

Un’altra via è mettere limiti, lavorare sulle gradazioni. No, non siamo tutti Filippo Turetta e l’amore romantico eterosessuale non è necessariamente abuso di controllo e morbosa dipendenza. La passione totalizzante dell’amore romantico, la versione contemporanea e vissuta da milioni di persone, in migliaia di rappresentazioni letterarie e cinematografiche, dello stilema dell’amor cortese non è necessariamente un dispositivo ideologico di asservimento di metà del genere umano. È uno dei modi di vivere sentimenti e pulsioni intrinsecamente umani. Che un modo di vivere degeneri non vuol dire necessariamente che esso sia marcio dall’interno e sin dall’inizio.

La terza via è invece andare oltre, guardare a quanto di tutto questo viene dal resto delle istituzioni sociali che abbiamo creato. Capire, per esempio, che la solitudine allucinata di Turetta, la sua incapacità di ammettere la fine di una storia, il suo vedersi solo come colui che accompagna e serve la donna amata, ma servendo la controlla, la sindrome dell’infermiere Benigno in Parla con lei di Almodovar (2002) non sono solo patologie individuali: sono patologie sociali. Sono derive di istituzioni che mostrano la corda e forse erano sbagliate sin dall’inizio.

Patologie sociali

Prima di tutto, la famiglia tradizionale, dove i ruoli maschili e femminili spesso corrono proprio lungo le linee che Turetta voleva riprodurre e Giulia Cecchettin voleva scardinare.

Le donne curano la prole e riflettono ingrandendolo il valore dell’uomo, come uno specchio (come diceva Virginia Woolf in Una stanza tutta per sé, 1929): per questo Giulia non poteva essere più brava.

Gli uomini si caricano sulle spalle tutta la famiglia, come Atlanti, al tempo stesso sovrastati dal peso e inorgogliti dal sopportarlo. Se quest’organizzazione viene meno, gli uomini rimangono senza ruolo e senza centro. Non sono persone, gli uomini, certi uomini: sono ruoli. Sono come il cavaliere inesistente: tengono su la loro armatura con la forza di volontà, ma dietro la celata non c’è niente.

Se una donna interrompe questo sforzo di volontà, perché non crede più alla finzione, allora tutto crolla: l’armatura cade a terra, inerte, come un pupo senza fili. Forse una concezione di famiglia diversa consentirebbe una libertà nuova delle donne? E se la famiglia queer fosse il vero baluardo contro la violenza di genere?

Poi l’ideale del matrimonio monogamico romantico: un nucleo familiare eterno, unico, dall’adolescenza alla vecchiaia. Se finisce la relazione che dovrebbe traghettare il maschio dalla famiglia d’origine alla nuova famiglia, senza interrompere la sicurezza affettiva, questo non può che essere una catastrofe. Il destino della solitudine si trasforma immediatamente nella maledizione allucinatoria dell’incel. E se rompere la monogamia romantica fosse un modo di liberare e liberarsi dalla codipendenza tossica?

Infine, il maschile standard: i maschi non comunicano i propri sentimenti, affidano il nucleo più riposto della loro debolezza alla madre prima, alla moglie poi. Possono avere amici di calcetto con cui parlare delle loro conquiste, amanti, colleghi di lavoro con cui ingaggiare duelli. Ma, quando la fragilità viene a galla, non rimangono che la madre e la moglie, donne che accolgono tutto, Madonne, grandi Madri.

Nessun margine di indipendenza, nessuna possibilità di comunicare e fare emergere sentimenti e dolori, per esempio con altri maschi, fra amici alla pari, con amiche non necessariamente amanti. Le donne hanno diritto a libertà negate da secoli e gli uomini debbono pagare un conto di abusi parimenti secolare. Per conquistare le prime e saldare il secondo bisogna rivoluzionare gli scenari in cui l’asservimento ha avuto luogo: la famiglia, il matrimonio, il maschile. Le soluzioni giuridiche non bastano. Solo un cambiamento della cultura porrà fine alla strage delle donne.

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