Un cupo pessimismo aleggia su Teheran. E non si tratta, solo, di dover ”clandestinizzare”, per proteggerla da eventuali attacchi, la guida Khamenei. Costringendo il leader supremo a nascondersi, non proprio il massimo per chi si vuole a capo del fronte contro “l’entità sionista”. Ma gli ultimi, clamorosi, colpi portati da Israele contro Hezbollah e Hamas, a Beirut come a Teheran, non consentono troppo orgoglio. La situazione è critica. Tanto più dopo l’ingresso in Libano dell’Idf.

Il nodo è la fine della strategia costruita dopo il 7 ottobre: la guerra dei proxies, condotta, anche in nome e per conto dell’Iran. Il cambio di passo di Netanyahu ha stupito tutti a Teheran. La guerra di logoramento a sostegno di Hamas attraverso Hezbollah, Houthi e milizie siro-irachene, consentiva di mantenere alta la bandiera della lotta a Israele senza dover subire troppe conseguenze. La guerra in tale forma valeva anche per l’Iran. Ora quel disegno è saltato. La decapitazione dei vertici di Hezbollah, a partire dalla figura decisiva di Nasrallah, e l’invasione del Paese dei cedri cambiano lo scenario.

Certo, Israele, sorretto come sempre dagli Usa che non si oppongono mai fino in fondo alle sue scelte, vanificando così ogni reale intento diplomatico, afferma di non mirare allo scontro diretto con l’Iran, ma le mappe esibite all’Onu, così come quel «Presto sarete liberi» indirizzato enfaticamente alla popolazione iraniana, non lascia tranquillo il regime dei turbanti.

Anche in questo caso Israele ha un obiettivo minimo e uno massimo. Quello minimo consiste nel respingimento del Partito di Dio oltre il Litani; quello massimo, almeno sul fronte libanese, è quello della distruzione totale della dimensione militare del gruppo sciita, affondando i colpi sino a Beirut. Ma Bibi si limiterà a questo? E che farà il gruppo dirigente iraniano di fronte a questo cambio di scena? Il bombardamento di martedì 1° ottobre, annunciato con largo anticipo, non sembra annunciare un’escalation imminente.

Certo, il presidente Pezeshkian vorrebbe sopire la tensione, individuare una linea negoziale che consenta di uscire dalla morsa, ma il suo esecutivo è monopolizzato dai conservatori, anche se, tra questi, solo una parte invoca un regolamento di conti con lo stato ebraico. Quanto alla guida, che teme l’affondamento del regime in caso di pesanti bombardamenti sulla capitale, deve ancora gettare il suo peso sulla bilancia. Alla fine la scelta competerà ai Pasdaran, autentica garanzia militare della politica di potenza iraniana.

Più di quanto si pensi, i Pasdaran ispirano la loro azione, più che a principi ideologici, a logiche di riproduzione del proprio peso nella società iraniana. I “gloriosi” tempi della mobilitazione nella guerra Iraq-Iran degli anni Ottanta che, con il sostegno Usa a Saddam, tarpò le ali alla spinta propulsiva della Rivoluzione khomeinista sono lontani. Certo, i Pasdaran hanno contribuito a sostenere i proxies, a dare profondità strategica alla politica dell’asse sciita che da Teheran si tende, via Damasco, sino alla Beirut degli Hezbollah, ma ragionano ormai secondo canoni di realpolitik.

Anche perché consapevoli della crescente debolezza interna del regime, il cui consenso si affievolisce. Inoltre hanno una tentazione e un obiettivo: gestire direttamente il potere, in chiave non islamista, ma islamonazionalista, al posto dei turbanti, con una trasformazione del sistema in regime militare; dotarsi del nucleare, conseguendo una paritaria deterrenza con Israele.

Per perseguire entrambi gli obiettivi hanno bisogno di tempo. Uno scontro diretto con Israele metterebbe oggi a rischio simili ambizioni e strategie. Da qui la scelta di lasciar sacrificare, se non ci fosse alternativa, gli alleati. Anche i confratelli del Partito di Dio. Reagirebbero con forza solo in caso di aggressione esterna.

Da qui la reazione senza avventurismo, senza trascurare la messa in opera di altre forme di guerra asimmetrica. I veri contendenti della partita mediorientale sono ora faccia a faccia. Anche se l’iniziativa è passata a Israele.

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