Secondo un editoriale del Corriere il diritto internazionale umanitario che prevede “crimini di guerra” sarebbe smentito dalla natura dei conflitti moderni, senza limiti. Ci può stare la provocazione espressamente ricercata da parte di voci che si compiacciono all’idea di cantare fuori dal coro. Tuttavia: in un tempo come questo, dominato dal sentimento dell’ineluttabilità delle guerre, trattasi di una voce davvero fuori dal coro?
Merita discutere un editoriale del Corriere, che è pur sempre una testata autorevole, nel quale al netto di qualche cautela dialettica e lessicale – l’autore se ne mostra consapevole – si avanza una tesi a dir poco audace.
La seguente: che il diritto internazionale umanitario, che stabilisce regole e limiti dentro le guerre così da contemplare per chi li trasgredisce “crimini di guerra”, sarebbe smentito dalla storia e dalla realtà, le quali attestano piuttosto che le guerre moderne, per loro natura, non sono suscettibili di essere soggette a quei limiti; che tale diritto è dunque ingenuo e velleitario se non ipocrita; che esso alimenta «una imbelle disposizione non già alla pace ma a essere lasciati in pace».
Si è a un passo dalla teoria giustificazionista degli “effetti collaterali” inevitabili. Prima ancora della portata della tesi – ripeto: audace – sorprende come, per amor di tesi, la si faccia facile sotto più di un profilo. Il primo, un classico: facendo una caricatura polemica del concetto di intenzionalità quale requisito per configurare “crimini di guerra”.
Certo che i mezzi bellici moderni rendono problematici sia il concetto di selettività nel risparmiare obiettivi civili sia il concetto di proporzionalità. E tuttavia domando: è questa una ragione per concludere che tutto è lecito o non esattamente il contrario? Cioè per propiziare un accurato discernimento.
La tecnologia bellica
I mezzi moderni si segnalano per potenza ma anche per precisione negli obiettivi. Si può rinunciare previamente e in via generale a porsi l’interrogativo se siano lecite certe azioni che, secondo agevole previsione, produrranno effetti tali da poter configurare appunto crimini di guerra? Era difficile prevedere che i bombardamenti su Gaza, così come condotti, avrebbero causato uno sterminio di civili?
Secondo profilo: nel menzionato editoriale l’autore evoca sue reminiscenze universitarie secondo le quali il diritto internazionale umanitario era, all’epoca, una disciplina pressoché inesistente. A occhio trattasi di una sessantina di anni fa. Ci sta. È relativamente recente tale disciplina. Essa ha avuto uno sviluppo soprattutto a partire dall’immediato secondo dopoguerra e si capisce perché.
Doverosamente, si voleva fare tesoro della lezione che si evinceva da quella immane tragedia (senza precedenti per vittime e distruzioni) e dunque si decise di inscrivere nel diritto e nelle Costituzioni democratiche la fiducia e l’impegno nel porre principi e regole che prevenissero e limitassero il ricorso alla guerra, nonché per contenere gli orrori e le devastazioni a guerre in atto. È il caso della nostra Carta con il suo art. 11.
Sbrigativi con il pacifismo
Domando: è giusto liquidare sbrigativamente il difficile ma fecondo sviluppo di idee e istituzioni che vanno nella direzione di affinare, potenziare ed estendere la forza del diritto e della giustizia internazionale per imbrigliare la violenza delle guerre? Pur con i loro evidenti limiti, Onu, trattati e convenzioni internazionali, Corti di giustizia sono carte e enti inutili?
Terzo risvolto: l’ideazione di quel pensiero e di quelle istituzioni non rappresenta un avanzamento della civiltà giuridica e politica da ascrivere esattamente a quell’occidente democratico del quale andiamo fieri, che attinge a un umanesimo dalle radici illuministiche e cristiane e che non ha conosciuto un pari sviluppo in altre civiltà? Un patrimonio – lo sappiamo – del quale non sempre l’occidente si è mostrato all’altezza, ma che tuttavia va custodito e promosso nella coscienza personale e collettiva.
Ci può stare la provocazione espressamente ricercata da parte di voci che si compiacciono all’idea di cantare fuori dal coro.
Tuttavia mi chiedo: in un tempo come questo, dominato dal sentimento dell’ineluttabilità delle guerre, trattasi di una voce davvero fuori dal coro? E comunque è opportuno che chi fa opinione e la veicola da pulpiti titolati avalli l’idea che la ragione e l’umanità non possano che rassegnarsi all’impotenza della politica e del diritto nel limitare la barbarie delle guerre?
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