Mi è capitato di leggere un editoriale di Ernesto Galli della Loggia a proposito del diritto internazionale e della sua capacità di sanzionare i crimini di guerra. Una riflessione nata a seguito del mandato d’arresto emesso dalla Corte penale internazionale per Benjamin Netanyahu per gli attacchi militari su Gaza, ma che riguarda non poco pagine oscure del secondo conflitto mondiale.

E, devo dire, fa un certo effetto leggere che «con le sue prescrizioni il diritto internazionale umanitario non sanziona i crimini di guerra», ma «rende la guerra moderna, la guerra in quanto tale, un crimine».

La politica del terrore 

È vero: la guerra fatta di liste, di archivi, di funzionari statali che con precisione burocratica compilano elenchi di condannati a morte (anche senza sentenze emesse da tribunali, come accadde nella strage delle Fosse Ardeatine); la guerra di truppe che piantonano i convogli di persone ammassate su vagoni piombati, diretti verso i lager, la guerra fatta di “campi bordello” costruiti dietro la linea del fronte (dove fra il 1943 e il 1945 l’esercito occupante tedesco in ritirata, rinchiuse centinaia di giovani italiane, usate di giorno come domestiche e di notte come “donne di piacere” per gli ufficiali a riposo) ci ha insegnato che sono gli stati occidentali, che fu la civilissima Germania, a mandare al massacro milioni di inermi, in nome della purezza del sangue e dell’onore tedesco. E che era stato il regime di Mussolini, a insegnare a Hitler come forgiare un popolo guerriero chiamato a rigenerare la potenza nazionale attraverso il culto del sangue e della violenza.

Le colpe e le responsabilità, dunque esistono, e ribaltarle clamorosamente non è mai una buona idea, specie dopo Norimberga che in nome del diritto delle genti condannò la politica del terrore messa in atto dalle truppe occupanti tedesche, in patria e all’estero.

E no, Roosevelt non può essere considerato un criminale di guerra al pari di Wilhelm Keitel, il generale comandante in capo delle forze armate tedesche autore di spietate direttive sulla “guerra alle bande” che autorizzò a fare dei civili il bersaglio strategico di una delle più spietate forme di guerra terroristica che la storia ricordi.

Una guerra fatta di rastrellamenti con incendi a case e villaggi, corpi impiccati sulla pubblica piazza a monito della popolazione, torture sui corpi dei prigionieri politici, stragi, eccidi di massa, deportazioni, stupri contro le donne. Fu grazie ai suoi ordini draconiani (e a quelli ribaditi dal feldmaresciallo Albert Kesselring) che interi villaggi e comunità vennero messi a ferro e fuoco, con l’intento di “stanare” quelle bande di ribelli partigiani pronti a combattere ovunque, nascosti in montagna o in collina, braccati nelle città occupate. Ed è contro la logica della “terra bruciata”, della guerra “casa per casa” che i ribelli “alla macchia” hanno cercato di resistere, con le loro poche forze, se necessario anche con l’uso della violenza (contro chi la violenza la stava usando mille volte di più).

Un massacro ordinario 

Accadde il 29 giugno 1944 quando reparti corazzati della divisione corazzata paracadutisti “Hermann Göring” massacrarono oltre 200 civili nei paesi di Civitella Val di Chiana, e nei piccoli comuni di Cornia e San Pancrazio. Oggi grazie al procuratore Marco De Paolis, che ha riaperto le inchieste sui crimini di guerra nazifascisti, sappiamo che quella strage non è stata una rappresaglia compiuta per vendicarsi di azioni partigiane, ma una spietata operazione di polizia, usata per controllare un territorio in prossimità delle linee di difesa e ritirata.

Un massacro ordinario, una ritorsione vigliacca. Perché i tedeschi sapevano benissimo che in quel territorio l’iniziativa partigiana era praticamente inesistente (anche se ogni tanto si manifestava), che i partigiani in zona erano pochi e mal organizzati. Ma sapevano anche che la Resistenza si sarebbe rafforzata grazie al sostegno della popolazione civile.

E a massacrare la gente di quel paesino, che ebbe solo la sfortuna di trovarsi a ridosso di una linea di fortificazione tedesca, ci furono anche tanti italiani: spie, delatori, confidenti dei comandi tedeschi di zona. Squadre di brigate nere e militi della GNR, pronti a straziare i corpi di donne, vecchi e bambini secondo un crudele spirito di vendetta.

Andrebbe sempre ricordato in un paese come l’Italia che per oltre 50 anni ha insabbiato 695 fascicoli processuali relativi a crimini di guerra compiuti dai nazifascisti. Incartamenti ritrovati nella sede della Procura generale militare di Palazzo Cesi a Roma risalenti al 1945, che avrebbe dovuto celebrare una grande “Norimberga italiana”. Crimini che non furono mai giudicati (e nemmeno puniti) lasciando i famigliari delle vittime in uno stato di abbandono che nel tempo è diventato rancore.

Ecco perché esiste l’obbligo morale (oltre che il dovere legale) di combattere ancora oggi ogni forma di impunità per i crimini di guerra, che non si estinguono col passare del tempo e se necessario vanno perseguiti anche a distanza di molti anni. Questo ha sancito il diritto internazionale: che nei contesti di guerra esiste l’obbligo di difenderli i diritti umani.

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