In Italia non è consentito indicare sui documenti di identità un genere diverso da maschile e femminile. La Corte costituzionale ha stabilito che per riconoscere il genere “non binario” non basta una sentenza, ma serve l’intervento del legislatore. E ha deciso altresì che per le persone trans* non è necessario il consenso del giudice prima di un intervento chirurgico di affermazione di genere. Ecco perché questa decisione potrebbe rivoluzionare l’attuale condizione italiana, mentre l’esecutivo reprime il diritto all’autodeterminazione
Martedì la Corte Costituzionale si è espressa a proposito del caso, presentato dal tribunale di Bolzano, circa la richiesta di una persona trans* nonbinaria di avere un genere altro sui documenti, con marcatore -X in alternativa a M o F. In un periodo buio per l’autodeterminazione trans* in Italia, la Consulta riconosce l’esistenza delle persone nonbinarie e dichiara incostituzionale l’attuale procedura per la quale è necessaria una sentenza di un tribunale per l’autorizzazione a procedere con interventi chirurgici di affermazione di genere (ricostruzione del torace maschile, vaginoplastica, falloplastica).
Si tratta di un testo che potrebbe rivoluzionare l’attuale condizione italiana e prende una posizione in contrasto con l’ondata repressiva all’autodeterminazione persone trans* da parte del governo, ma che è importante comprendere in ogni aspetto. Anche in quelli che è opportuno problematizzare.
La sentenza si articola su due punti principali: genere X sui documenti e autorizzazione alla chirurgia affermativa da parte dei tribunali.
Il genere X sui documenti
La Corte Costituzionale dichiara inammissibile l’introduzione di un genere altro sui documenti perché «l’eventuale introduzione di un terzo genere di stato civile avrebbe un impatto generale, che postula necessariamente un intervento legislativo di sistema». Rimanda così l’intervento al parlamento, poiché i limiti delineati sono di natura legislativo-sistemica ed è necessario che il legislatore intervenga per ripensare l’intero sistema di controllo delle identità da parte dello stato. L’invito è più che esplicito, richiamando le esperienze di altri stati che hanno già questa possibilità come l’esperienza italiana delle carriere alias.
Personalmente ritengo che il marcatore di genere vada abolito dai documenti identificativi che sono un mero strumento di controllo. Quelle due lettere (M o F) sui documenti non sono utili a identificare noi in quanto persone, ma a dividerci praticamente quando siamo in stato di fermo, per delineare in quale reparto delle strutture di detenzione possiamo essere assegnati, come le carceri e i Cpr.
Nella sua dichiarazione, la Corte Costituzionale di fatto riconosce l’esistenza delle persone nonbinarie e sottolinea l’esigenza del loro riconoscimento rispetto al principio di pari dignità sociale (art. 3). Questo è un dato di cui si dovrà tenere conto.
La chirurgia affermativa
Il secondo punto è a proposito degli interventi chirurgici. In Italia l’iter per l’accesso alla medicalizzazione (cure ormonali, interventi chirurgici) non è affermativo: è necessario ottenere l’autorizzazione di psicologici, psichiatri e giudici. Dopo aver ottenuto la relazione - la diagnosi di disforia di genere che ci attesta in quanto persone malate - per avere l’autorizzazione a sottoporsi agli interventi è obbligatorio andare in tribunale, nella cui sede contestuale è possibile richiedere anche la rettifica anagrafica.
Nella sentenza la Corte Costituzionale ha dichiarato quest’ultimo passaggio incostituzionale (l’articolo 31, comma 4, del decreto legislativo 150 del 2011) definendolo irragionevole.
Questo avrebbe un enorme impatto non perché verrebbe meno la potestà dello stato di decidere se è possibile o meno accedervi, ma anche in termini di tempo: attualmente il percorso medicalizzato è una lunghissima fila d’attesa di autorizzazioni, valutazioni e sentenze. Inoltre, rimuoverebbe parzialmente gli ulteriori ostacoli riscontrati dalle persone nonbinarie.
Infatti, i giudici spesso tendono a rigettarne le richieste poiché la loro esistenza appare come difficile da inquadrare per la magistratura, che si affida a parametri binari ed eteronormativi per compiere le proprie valutazioni (ad esempio, se ti affermi verso il maschile ci si aspetta che le operazioni mascolinizzanti siano percorse tutte implicando anche una visione circa l’eterosessualità obbligatoria della persona).
Tuttavia, la Corte Costituzionale non compie il passo di affermare che gli interventi dovrebbero far fede al principio di autodeterminazione, che rimangono dunque legati a un percorso patologizzante dove la diagnosi ha un ruolo centrale nell’accesso ai servizi alla salute e al benessere delle persone trans*.
Si tratta di una sentenza storica che ci si augura aprirà il dibattito e l’azione verso un miglioramento dell’attuale situazione italiana che non solo è manchevole, ma anche stigmatizzante nell’approccio ai percorsi affermativi.
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