Con qualche mese di ritardo, la Germania segue la Francia e si avvia a elezioni anticipate. Il governo di coalizione non è sopravvissuto alla prova della legge di bilancio; la causa contingente della sua caduta è stato un buco di circa nove miliardi per far quadrare i conti della legge di bilancio (una goccia nell’acqua).

Ma il licenziamento del ministro delle finanze Lindner da parte del cancelliere Scholz (e il conseguente abbandono del governo da parte della delegazione dei liberali) ha radici molto più profonde, con Lindner ostinatamente contrario a qualunque alleggerimento della disciplina fiscale, nonostante un’economia in crisi profonda, tanto congiunturale quanto strutturale.

È da mesi che gli altri due partner della coalizione, i Socialdemocratici di Scholz e i Verdi, insistono perché venga messa in agenda una discussione sul “freno al debito”, la regola fiscale che la Germania ha adottato nel 2009 e che impone di fatto il pareggio di bilancio (ci torneremo in un futuro Diario Europeo); una regola che secondo molti economisti ha esacerbato la cronica mancanza di investimento pubblico alla radice di molti dei mali dell’economia tedesca. Lindner ha sempre rimandato al mittente gli appelli al dialogo esa), arrivando ad argomentare, chiaramente in mala fede, che oggi la regola tedesca non conta perché è quella Europea che “morde”.

Le ragioni dell’indisponibilità al compromesso di Lindner sono da ricercare innanzitutto nella rigidità ideologica (Lindner prosegue nella tradizione ordoliberale senza avere né l’intelligenza né il fiuto politico del suo predecessore Wolfgang Schäuble), che lo ha portato ad affermare, contro ogni evidenza, che la transizione ecologica necessita esclusivamente di investimento privato. Poi, nel tentativo disperato di ridare vigore al suo partito, che nei sondaggi va sempre peggio, e rischia alla prossima tornata elettorale di non superare la soglia di sbarramento.

Per questo, all’ennesimo strappo, Scholz ha accusato Lindner di irresponsabilità e di aver sacrificato al proprio tornaconto elettorale lo spirito di compromesso su cui da sempre si basano i governi di coalizione in Germania. Le recenti proposte di ammorbidire gli standard ambientali e di puntare a obiettivi climatici meno ambiziosi possono essere lette come un tentativo di recuperare i voti dei liberali migrati verso il partito di estrema destra Alternative für Deutschland e verso i conservatori Cristiani Democratici (CDU).

Proprio i Cristiani Democratici determineranno l’agenda politica delle prossime settimane. Scholz ha intenzione di cercare in parlamento una coalizione per approvare una legge di bilancio di compromesso, e poi andare a votare in marzo.

Questo, secondo lui, consentirebbe di affrontare le prossime complicate settimane con un governo comunque operativo. Il leader della CDU invece preme per un voto di fiducia immediato in modo da poter avere elezioni in gennaio e un governo di maggioranza quanto prima.

Comunque vada, la Germania sarà concentrata sui propri problemi per qualche mese, in un momento complesso per l’Europa. Certo, per l’elezione di Trump, ma anche e soprattutto per la schizofrenia delle politiche economiche europee che prima o poi (sperabilmente più prima che poi) renderanno inevitabile l’apertura di un nuovo cantiere di riforme.

Ovviamente questo cantiere non potrà essere aperto senza la Germania e senza la Francia, dove Macron è in stato confusionale da luglio e sembra vivere alla giornata. Volendo disperatamente essere ottimisti, si potrebbe sperare che l’uscita di scena di Lindner e la disfatta di Harris negli Stati Uniti spingano i Socialdemocratici e i Verdi ad abbracciare una linea decisamente progressista (su Europa, giustizia sociale e ambiente) e a evitare la maledizione del centrismo che inesorabilmente sta mietendo una vittima dopo l’altra tra le cosiddette sinistre dei paesi avanzati. È difficile, tuttavia, che il pavido Olaf Scholz sia capace di una rottura del genere.

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