Nel suo esordio al Senato il neoministro ha tessuto le lodi della visione dell’imprenditore. Che però castigava i politici senza laurea, facili prede di una «onnipotente burocrazia»
Lo scorso 30 settembre, lo studente lavoratore non frequentante Alessandro Giuli ha superato il suo ultimo esame all’università Sapienza di Roma in Teoria delle dottrine teologiche. Dopo poco più di una settimana, Giuli ha sostenuto anche il suo primo discorso in Senato come nuovo ministro della Cultura.
Non è da tutti fare carriera così in un lampo, inverando la massima cara ad Andrea Minuz del Foglio, quotidiano dove il neoministro si è formato e tutt’ora scrive: «A Roma la politica è la continuazione del liceo con altri mezzi». Nella sua prima orazione “teoretica” a Palazzo Madama, Giuli ha dedicato tre lunghi minuti alla figura di Adriano Olivetti, «fecondissimo seme di futuro nell’anima europea e italiana».
Il neoministro è sembrato appassionarsi, oltre che ai progetti straordinari dell’imprenditore canavese, al suo pensiero politico al cui centro sta l’idea di una comunità territoriale capace di autogovernarsi. Certo, il testo a cui il neoministro allude, L’ordine politico delle Comunità, porta, nella sua prima edizione, un sottotitolo inequivocabile: Le garanzie di libertà in uno Stato socialista.
Ma questa genealogia socialista non sembra turbare gli esponenti della destra culturale oggi al potere; sicuramente non il teoreta che da giovane fu militante nel movimento di estrema destra Meridiano zero; né il suo predecessore Gennaro San Giuliano che, a sentir lui stesso, è indefesso lettore di Gramsci.
Ciò che accomuna questi intrepidi esegeti è, però, soprattutto la fretta. Nell’Ordine politico delle Comunità, Olivetti descrive molto chiaramente come, nel suo progetto di democrazia, debba essere selezionata la classe dirigente dello Stato federale, ministro della Cultura compreso.
Per prima cosa è fondamentale che l’alta burocrazia dimostri una «sensibilità politica nell’antifascismo attivo», perché il «presupposto antifascista attivo può assicurare alla nuova classe politica un suo fondamento etico». Quindi, che chi occupa un ruolo istituzionale abbia un livello di formazione adeguato: «Tutti coloro che hanno il privilegio e l’ambizione di assumere la direzione delle cose pubbliche» devono possedere un certo «livello di conoscenze teoriche» che «può essere accertato obiettivamente grazie a una procedura affidata alle tradizioni scientifiche delle università o di altri studi scientifici superiori».
Alle cariche pubbliche – precisa ancora Olivetti – potranno aspirare esclusivamente coloro che sono in possesso di una laurea: «Tutti i giovani laureati di qualsiasi facoltà, i quali abbiano esercitato, dopo il conseguimento della laurea universitaria, una definita attività tecnica, professionale o amministrativa, durante almeno cinque anni».
All’esigenza della laurea non possono sottrarsi coloro che presiedono alle funzioni più importanti dello stato, perché «la pretesa del parlamentarismo di far prevalere il criterio politico nella designazione dei ministri, senza preoccuparsi eccessivamente della loro competenza specifica, è un assurdo che solo la cattiva volontà di comprendere riesce a giustificare, poiché è ormai ben noto che i ministri incompetenti, i ministri che cambiano con estrema facilità di portafoglio, sono destinati a diventare succubi più o meno coscienti di un’onnipotente burocrazia».
Sia chiaro: non ci interessa troppo la filologia. Ci interessa però ricordare cosa Olivetti dice alla lettera perché, oltre a suscitare quell’«avvertimento del contrario» con cui Pirandello definiva il comico, mette a fuoco la distorsione ottica che da decenni stiamo tutti subendo rispetto alla selezione delle nostre classi dirigenti. C’è un filo rosso che lega i tagli sistematici alla pubblica istruzione e alla ricerca universitaria ai quasi 5 milioni di italiani che sono emigrati negli ultimi vent’anni.
Perché si tratta di una migrazione, per lo più, di giovani donne e uomini professionisti e laureati. Che in questo vuoto di cultura e di formazione le più alte cariche del governo esibiscano senza vergogna la propria non-formazione non è un semplice dato di costume. Come il passo delle oche, tanto caro al neoministro, ci ha ormai portato alla normalità di una élite senza qualità alcuna.
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