Il discorso del ministro non è un pasticcio estetico o di bon ton linguistico. Il suo problema è che è che è inutile. Spiegava Tullio De Mauro che la lingua parla per noi e prima ancora pensa per noi. Con buona pace della destra il problema del nostro tempo non è parlare. Ma tornare a pensare.
Perché a giorni di distanza tornare sul discorso che il neoministro della Cultura, Alessandro Giuli, ha tenuto dinanzi alla commissione parlamentare incaricata di valutarne il programma? Direi per due ragioni. La prima è perché in quell’ora e più di lettura il ministro non ha condiviso alcun programma, preferendo esporre una sua visione del tempo storico che lo ha visto reclutato ai vertici del governo.
La seconda è la più interessante perché intreccia gran parte delle critiche che l’erede di Gennaro Sangiuliano si è attirato addosso a cominciare dalla più frequente: Giuli avrebbe sciorinato un discorso incomprensibile costellato da concetti relativamente scontati e che avrebbe potuto declinare in modo assai più semplice.
Riassumiamoli così: viviamo in un mondo tecnologico, per la precisione un mondo dove la tecnologia soverchia le capacità cognitive dei singoli di adeguarsi a tale velocità. Come avvenuto in passato, uno scarto simile si porta appresso risorse e pericoli. Punto. E siamo al tema. Dinanzi alla denuncia, il ministro quali risposte ha offerto? Nel merito nessuna, se non la rassicurazione che non stiamo entrando in un’epoca di «passioni tristi» con citazione implicita al quasi omonimo saggio di Miguel Benasayag e Gérard Schmit uscito qualche anno fa.
La lingua della politica
Ora, la lingua spesa – eviterò le citazioni più volte riprese – risultava effettivamente pomposa. Ma per citare Gustavo Zagrebelsky, «la lingua è una manifestazione autentica, non solo l’espressione artificiale di ciò che è colui che parla». In altri termini, ascoltando il linguaggio di ciascuno possiamo capire qualcosa di chi ci sta parlando. Al fondo, accade perché lui o lei vuole così, pensiamo alle cadenze romanesche di Giorgia Meloni (della serie, “sono una di voi”). Detto ciò, la lingua della politica è anche il modo per condizionare i pensieri dell’opinione pubblica.
Le dittature lo hanno sempre fatto e non per forza con parole nuove: spesso i regimi hanno mutato significato a termini che già esistevano. Lo fece il nazismo coniando al più una serie di parole composte col prefisso Volk in un rimando alla radice di “popolo”.
George Orwell nel suo capolavoro, 1984, coniava l’allegoria del «ministero della Verità» dotato del potere di dare un senso diverso alle parole. In tempi più prossimi ai nostri abbiamo conosciuto – e ahimè, condiviso – un impoverimento del lessico politico. A onor del vero per demerito primario della destra.
Il sistema paese è divenuto «l’azienda Italia» e le identità hanno lasciato campo alla «cultura del fare». Nella scuola si è passati dai «piani di studio» ai «piani-carriera». Che poi quella «cultura del fare» sia stata la radice di una nuova stagione dell’antiparlamentarismo tipico di tutte le destre del ‘900 va inteso come conseguenza.
«Io so»
In questa logica, il discorso di Giuli sembra recuperare un primato della politica. Ma il punto è un altro: lo fa esibendo una lingua che spezza ogni legame col traguardo di farsi comprendere e condividere. Il suo messaggio è “Io so”, sottinteso “e voi no”. Non dico voglia sfociare nella formula del Marchese del Grillo, ma un po’ conduce a quel simpatico leguleio del dottor Balanzone: «Sono una maschera dotta e sapiente chiacchiero molto e concludo niente / Son di Bologna un gran dottore; mi sottopongono ogni malore / ed io con l’abile mia parlantina sputo sentenze di medicina».
Ma torniamo a noi. Che dagli ultimi trent’anni (un’eternità!) la lingua delle istituzioni esca immiserita è un dato di realtà. Il punto è che quella del ministro non pare la strada migliore per risalire la china. Con una riflessione in aggiunta. Che al fondo, non sempre è stato così.
Nella storia del paese, cultura e politica si sono spesso saldate ed è avvenuto quando entrambe si sono poste il compito di coinvolgere le persone in un impegno comune. Poteva essere la ricostruzione del paese dopo la guerra, oppure colmare il vuoto di pensiero dopo il fascismo, e magari indagare nuovi mondi e sentieri della conoscenza come per altro sarebbe opportuno fare anche oggi.
Anni fa, ad affrontare il ruolo degli intellettuali nella storia d’Italia era stato Alberto Asor Rosa in un dialogo con Simonetta Fiori. La tesi si concentrava su una scarsezza di intellettuali puri o ascetici e il motivo era che a lungo nella vicenda italiana aveva prevalso il legame tra vicende politiche e intellettualità. Quel nesso tra cultura e politica trovava motivo in una unificazione tardiva, il che aveva imposto al ceto intellettuale un contributo diretto a edificare la coscienza e, assieme a quella, le strutture intellettuali del nuovo stato.
Non per caso figure prestigiose si erano dedicate al capitolo della scuola pubblica, da De Sanctis a Croce e Gentile sino a Lucio Lombardo Radice e Bice Chiaromonte. Così come non per caso, nel Dopoguerra abbiamo conosciuto un giornalismo militante: Elio Vittorini capo redattore dell’Unità di Milano, sulla stessa testata Italo Calvino curava la pagina culturale dell’edizione torinese, lo stesso Calvino con Giorgio Caproni aveva scritto per il Politecnico una serie d’inchieste sulle nuove borgate popolari mentre Eugenio Montale sul Corriere della Sera si occupava della critica letteraria spaziando ben oltre quel perimetro.
Come reagire
In anni recenti, tutto questo bagaglio si è lasciato impolverare e il ricatto del presente – la scelta di schiacciare politica e linguaggio sulla strettissima contingenza – ha condizionato il modo stesso di esprimersi. Purtroppo, anche a sinistra il riflesso è stato chiudere un bel numero di uffici studi aprendo altrettanti uffici stampa nella convinzione che la debolezza della politica risiedesse in un tasto del mixer audio anziché in un deficit di studio e ricerca.
La destra ha sfruttato l’occasione scorgendo nel silenziatore su storia e cultura la via migliore per archiviare una intera pagina del passato nella logica di cancellare la discriminante antifascista nell’atto fondativo delle istituzioni repubblicane. Bene, ma al punto dove siamo come si reagisce?
Direi in primo luogo rifondando partiti degni della qualifica. Restituendo loro una cultura e identità riconoscibili dentro un tempo che travolge ancoraggi sino a ieri all’apparenza solidi (l’antifascismo in primis). E poi tornando a formare e selezionare la classe dirigente e il ceto politico. Aggiungo, senza rinchiudersi nelle istituzioni e contrastando la regressione a un accesso patrimoniale alle cariche elettive.
Spiegava tempo fa Salvatore Veca (quanto ci manca la sua voce): abbiamo perso di vista lo spazio dei fini, ma è in questo spazio che si definiscono i lineamenti essenziali, i modi di convivere, gli assetti delle istituzioni, le pratiche sociali che coincidono con un progetto. E che rispondono alla domanda essenziale: “Quale idea di futuro è degna di lode, e perché?”.
Ecco, è qui che ora, come in passato, servirebbe il concorso di scienza, filosofia, economia, storia, diritto, femminismo e teologia. Nel dar vita a una interpretazione di questo tempo all’altezza delle prove che politica, stati, governi, hanno dinanzi a sé. In altri momenti quella capacità vi è stata.
Per dire, il New Deal rooseveltiano non fu solo innovazione di politiche economiche, opere pubbliche e germi di welfare. Fu anche rottura etica rispetto all’età dell’oro, all’egoismo dei privilegiati, al materialismo distruttivo della prima classe del Titanic. Con ogni probabilità senza quella svolta radicale la via d’uscita dalla Grande depressione sarebbero state le terapie autoritarie di Hitler e Mussolini.
Anche oggi la democrazia è a rischio, ma non si scorge una cultura capace di superare il divorzio tra economia, politica e cultura. Il punto è che per sanare quella distanza, il linguaggio – le parole e la forma della politica e delle istituzioni – rimane un anello decisivo. E allora, il discorso del ministro Giuli non è un pasticcio estetico o di bon ton linguistico. Il suo problema è che è un discorso inutile. Starebbe alla sinistra scoprire e coltivare un linguaggio distinto e diverso. Spiegava Tullio De Mauro che la lingua parla per noi e prima ancora pensa per noi. Aveva ragione. Dunque, la sintesi? Che con buona pace di Giuli e della destra il problema del nostro tempo non è parlare. Ma tornare a pensare.
© Riproduzione riservata