Cancellato l’abuso d’ufficio, la destra al governo è davvero convinta di aver riformato la giustizia italiana. Ne è convinto il ministro Carlo Nordio, che da ex magistrato sta conducendo una battaglia vendicatrice più che riformatrice contro i suoi ex colleghi. L’abolizione dell’abuso d’ufficio è l’ennesimo regalo ai colletti bianchi, così come la rimodulazione del traffico di influenze. Due pensieri in meno per i politici corrotti e la borghesia mafiosa.

Ossia quel grumo di complicità esterne alle organizzazioni criminali che ne rafforzano il potere, spesso travolto da indagini iniziate da un semplice abuso d’ufficio e terminate con la contestazione dell’associazione mafiosa. Nordio, senza saperlo, gli ha fatto un gran regalo.

Eppure di certo non mancano faccende serie sulle quali riflettere. A partire dall’antimafia. Da quegli uffici che devono gestire delicate indagini sulle mafie. Le ultime due inchieste condotte dalla procura antimafia di Roma confermano un dato: la repressione giudiziaria è una lumaca rispetto alla rapidità con cui mutano le cosche mafiose radicate fuori dai confini tradizionali.

In pratica, un’indagine chiusa oggi racconta un’organizzazione vecchia di almeno, quando va bene, tre anni prima. Un periodo più che sufficiente a un clan per rigenerarsi, espandersi e diversificare gli investimenti in altri settori.

È utile prendere ad esempio l’ultima inchiesta sulla miscela criminale della Capitale. La sinergia tra camorra, ‘ndrangheta, ex estremisti della destra e malavitosi romani ha prodotto un patto tra famiglie, mai nemiche ma sempre alleate con il fine di «non fare casino» per il bene degli affari.

Le intercettazioni sono iniziate nel 2018. Le prime informative depositate dagli investigatori della Direzione investigativa antimafia di Roma risalgono al 2020: vere e proprie enciclopedie per interpretare il radicamento di ‘ndrangheta e camorra nella città eterna. Tuttavia da quando la procura riceve i primi rapporti al giorno in cui chiede gli arresti al giudice per le indagini preliminari trascorrono tre anni.

Il giudice firmerà l’ordinanza di custodia il 20 giugno 2024, otto mesi dopo, neanche troppo.

In questi anni il fascicolo è passato da un pm a un altro, si è perso tempo prezioso. Alla fine l’affresco contenuto nelle pagine firmate dal giudice è per forza di cose il racconto di una mafia di cinque anni fa. Tanto che nella maggioranza dei capi di imputazione contestati è specificato: reati commessi tra il 2017 e il 2019.

Persino il giudice che ha firmato gli arresti per un piccolo gruppo rispetto alle richieste dei pm è costretto a scrivere che per alcuni indagati «difettano – in relazione al profilo delle esigenze cautelari – i requisiti della attualità e della concretezza» e sottolinea l’eccessivo «lasso di tempo intercorso dai fatti».

Ma non è la sola indagine che arriva con ritardo estremo. C’è un caso ancora più eclatante. La settimana scorsa ad Aprilia, provincia di Latina, l’antimafia ha eseguito una serie di arresti. Tra gli indagati, finito ai domiciliari, c’è anche Lanfranco Principi. I detective avevano iniziato a indagare nel 2018. La richiesta degli arresti è del 2021. Il giudice l’ha firmata il 26 giugno 2024. Tre anni dopo. In questo lasso temporale Principi da vicesindaco è stato eletto sindaco.

Questo procedere lento della giustizia rispetto alla rapidità con cui si muovono le mafie rischia di lacerare il rapporto di fiducia tra i cittadini e l’antimafia. In particolare tra quei cittadini che hanno denunciato o che vivono sul proprio territorio le conseguenze dell’occupazione criminale. Tutto ciò amplifica la sensazione di solitudine e abbandono.

Problemi reali di una giustizia che arriva tardi. Nulla però che possa risolvere il piano Nordio. Il ministro meno interessato alla questione mafiosa da quando esiste la Repubblica.

© Riproduzione riservata