La contrarietà degli Usa, la reazione dei paesi arabi che hanno firmato gli Accordi di Abramo e l’opposizione degli apparati interni rendono più difficile l’escalation nell’area
Come efficacemente scritto da Renzo Guolo su queste pagine, il terribile uno-due dell’intelligence israeliana ai danni della catena di comando di Hezbollah fa pensare a un’imminente estensione del conflitto al fronte nord.
Molti, ormai, i segnali in questo senso: dall’intensificarsi degli scontri attorno alla Linea Blu, agli omicidi mirati che stanno scandendo tutto il 2024, talmente umilianti per l’«asse di resistenza iraniano» da far apparire inevitabile una risposta che innescherebbe definitivamente la spirale di guerra, fino all’annunciata sostituzione al ministero della Difesa di Yoav Gallant con il più allineato Gideon Sa’ar.
Un tempo acerrimo rivale di Bibi interno al Likud, oggi sostenitore di quella linea dura che fin da subito ha voluto il 7 ottobre come l’occasione per regolare definitivamente i conti con vicini di casa con cui si era dimostrata impossibile la convivenza.
Molta polvere c’è, però, negli ingranaggi di questa macchina che sembra correre dritta verso l’obiettivo. Progetto, tra l’altro, che si interseca benissimo con la visione messianica della ben nota componente governativa facente capo ai Ben-Gvir e agli Smotrich, i quali non vogliono il Grande Israele per motivi di sicurezza, quindi di reazione ad attacchi subiti, ma per rispondere ad un quadro ideologico che disegna i confini dello Stato ebraico secondo una loro becera e tendenziosa interpretazione della Torah.
In primis, Israele dovrebbe affrontare la contrarietà degli Stati Uniti. Superabile: chiunque sarà l’inquilino della Casa Bianca non metterà a rischio l’alleanza con lo Stato ebraico e men che mai rinuncerà a vendergli armamenti. E non tanto per l’influenza di questo mostro mitologico chiamato lobby ebraica, che pur conta ma che, sia in termini di voti che di cospicui finanziamenti a fondazioni e università, è facilmente sostituibile con una miriade di suoi nemici. Quanto meno perché solo annunciare un indebolimento nella fornitura ad Israele sarebbe come dar via libera all’Iran per attaccarlo.
Immaginate solo cosa sarebbe stato l’attacco dell’aprile scorso senza l’Iron Dome, che lo ha tramutato in un divertente spettacolo pirotecnico, se non fosse per la morte di una bambina vittima di una scheggia di un razzo di Teheran. E mai, mai e ancora mai gli Usa accetteranno un Medio Oriente a guida iraniana. Continueranno a finanziare Israele, così come gli altri alleati arabi nell’area. Netanyahu, che ha anche un passato americano nella sua biografia, queste cose le sa benissimo e si permette di tirare la corda sapendo che non si spezzerà.
Secondo ostacolo: la reazione dei paesi arabi firmatari degli Accordi di Abramo e delle paci precedenti. Superabilissimo: il panislamismo è un altro mito che sopravvive solo in una certa retorica islamista e in parte di una quantomeno smarrita intellighenzia occidentale.
Nemmeno troppo velatamente, i governi nazionalisti arabi, le monarchie del Golfo e l’Arabia Saudita stessa sperano che Israele faccia per loro il lavoro sporco, annichilendo quelli che sono i loro principali nemici esterni (gli sciiti) e interni (i gruppi fondamentalisti sunniti in rotta di avvicinamento iraniana dal 1979).
Terzo ostacolo: l’opposizione interna. Non facilmente superabile. C’è un’enorme parte del paese, quelle centinaia di migliaia di persone che vediamo mobilitarsi ogni settimana nelle oceaniche manifestazioni che invadono le città israeliane, che non ha alcuna intenzione di assecondare la strategia del Grande Israele.
Nessun israeliano in Libano, nessun israeliano a Gaza, come, appunto, ha più volte detto Gallant. E non per solidarietà verso gli arabi né, tantomeno, verso i palestinesi.
Quel sentimento, che pure un tempo esisteva nella sinistra israeliana, è, tranne alcune realtà marginalissime con cui io stesso collaboro, morto con la Seconda intifada e definitivamente seppellito dall’assurda carneficina di Hamas. Molti israeliani non sono, però, disposti a contare uno stillicidio quotidiano dei propri soldati, che sarebbero costretti ad una guerra urbana logorante anche sotto il profilo economico.
Così come il prevedibile ritorno in grande stile degli attentati terroristici. Intelligence e Idf si iscrivono in questo fronte.
In tal caso, gli attacchi di oggi, che rispondono alla dichiarazione di guerra libanese sotto forma di migliaia di razzi e droni verso il Nord di Israele lanciata il 7 ottobre, potrebbero essere un monito a non proseguire e ad arretrare dietro il fiume Litani come previsto dalla risoluzione Onu 1701. Con quale Israele abbiamo a che fare oggi? Una cosa, però, è sicura: Hezbollah non indietreggerà da sola, per cui non si è ottimisti.
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