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Del ruolo dello Stato nelle imprese in campagna elettorale non si parla, segno che lo status quo va bene a tutti
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I modi in cui lo Stato esercita un ruolo nella vita delle imprese sono molteplici. La ragione prevalente degli interventi pubblici è la tutela dell’occupazione, magari giustificata con la difesa di un’azienda strategica o di un marchio storico di interesse nazionale. Impossibile dissentire sugli obiettivi.
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Il sostegno dello Stato all’occupazione e alle imprese nazionali non è in discussione, ma dobbiamo domandarci se le modalità di intervento dei vari governi italiani sia realmente efficace.
Del ruolo dello Stato nelle imprese in campagna elettorale non si parla, segno che lo status quo va bene a tutti. È possibile qualche cambiamento, ma in peggio se le dichiarazioni di Fratelli di Italia (FdI) su Tim e Ita (ex Alitalia) diventassero azioni di governo.
I modi in cui lo Stato esercita un ruolo nella vita delle imprese sono molteplici: la nomina dei vertici delle imprese partecipate e delle istituzioni pubbliche come Invitalia e Cassa Depositi e Prestiti); la gestione diretta della ristrutturazione di grandi imprese come Ita, Ilva o Mps; l’intervento del ministero dello Sviluppo Economico (Mise) nella gestione delle crisi; e l’attività normativa, come la recente Legge anti-delocalizzazioni.
La ragione prevalente degli interventi pubblici è la tutela dell’occupazione, magari giustificata con la difesa di un’azienda strategica o di un marchio storico di interesse nazionale (c’è un registro presso il Mise). Impossibile dissentire sugli obiettivi, a maggior ragione in un periodo di disagio sociale, crisi energetica e rischio di recessione.
Il sostegno pubblico funziona?
Il sostegno dello Stato all’occupazione e alle imprese nazionali non è in discussione, ma dobbiamo domandarci se le modalità di intervento dei vari governi italiani sia realmente efficace.
Quattro mi sembrano i quesiti a cui si dovrebbe dare una risposta convincente. L’intervento dello Stato è servito veramente a mantenere e accrescere l’occupazione?
Poiché mantenere l’occupazione non basta se non migliorano anche le prospettive di reddito degli individui, gli interventi dello Stato aumentano la produttività, l’unico modo per farlo?
Le ingenti risorse investite dallo Stato nelle imprese potrebbero essere meglio utilizzate per raggiungere gli stessi obiettivi?
Tecnologia, innovazione dei prodotti e dei processi produttivi, apertura di nuovi mercati, economie di scala, nuovi concorrenti, mettono in crisi irreversibile alcune aziende, e fanno la fortuna di altre; l’intervento dello Stato rischia di tenere in vita imprese zombie, frenando il processo di sviluppo?
Domande legittime, forse doverose, ma scomode, soprattutto perché non si può rispondere coniando i facili slogan di cui è fatta la politica attuale.
Lo Stato azionista
Lo Stato è azionista rilevante di un gran numero di imprese, è il primo azionista nella Borsa Italiana, e azionista della Borsa stessa (Euronext). In quanto tale ha il potere di nominare i vertici aziendali.
La questione dell’eventuale clientelismo è liquidata ricordando che le partecipate pubbliche sono società spesso quotate, con azionisti privati, e comunque soggette alle regole del mercato; lo Stato eserciterebbe dunque solo il proprio diritto di socio. Ma perché, allora, lo Stato è socio?
Non certo per impedire scalate straniere: per questo ci sono strumenti appositi, come la norma sul Golden Power; non per tutelare settori strategici, visto che non c’è niente di più strategico dell’industria della difesa americana, della quale il governo federale non detiene una singola azione; né per meglio tutelare gli interessi strategici del paese, come crisi energetica e dipendenza dalla Russia hanno tragicamente dimostrato.
Quindi si deve concludere che lo Stato è azionista proprio per poter esercitare il potere di nomina.
Avendo escluso il movente clientelare, si deve dedurre che il potere di nomina, oltre che a dimostrare di avere potere, serve a evitare che un vertice aziendale decida chiusura, ridimensionamento, ristrutturazione o cessione di ramo di azienda o sito produttivo con ricadute sull’occupazione, e calo di consensi per il governo.
I piani di Meloni
Per quale ragione, FdI vorrebbe che lo Stato acquisisse il controllo di Tim, che avrebbe la rete unica, quando la rete unica a controllo pubblico è già nei piani di ristrutturazione del gruppo?
Forse perché nel piano di FdI, la riorganizzazione necessaria sarebbe condotta dallo Stato azionista e non da privati, con un’attenzione ben diversa alle ricadute sull’occupazione. L’efficienza della futura rete unica passa in secondo piano.
Ma, oltre a incidere sull’efficienza delle partecipate, prova ne sia che tutte le quotate sono valutate a sconto rispetto alle omologhe europee, lo Stato immobilizza ingenti capitali, che forse potrebbero essere meglio utilizzati. Ma solo porre la questione delle partecipate pubbliche, per la politica attuale sarebbe come il bacio della morte.
Altrettanto se ci si interrogasse sulla difesa dei marchi storici, definiti da una legge del 2020 come impresa di “eccellenza storicamente collegata al territorio nazionale” con più di 250 addetti e registrata da almeno 50 anni.
Non si capisce chi, e con quali criteri, decida quali siano queste imprese, né che garanzia offra la storicità del marchio: Kodak è fallita per non aver saputo gestire la svolta digitale.
Le imprese zombie
A me sembra solo un pretesto per permettere l’intervento statale in imprese con più di 250 addetti in crisi, e non perdere consensi: se un marchio storico in crisi avesse 30 addetti, probabilmente il danno per il consenso sarebbe risibile e si lascerebbe affondare l’impresa. Il rischio che l’intervento a difesa del marchi tenga in vita imprese zombie, è quindi molto elevato.
Più che un rischio, una certezza nel caso di Ita, Mps e Ilva. Il valore di Ita è dato dal diritto a operare una certa rotta a un certo orario (gli slot); la gestione consiste nell’utilizzare gli slot riuscendo a produrre reddito.
Ma l’azienda continua a bruciare risorse, segno che l’intervento dello Stato è servito solo a mantenere in vita un’organizzazione troppo costosa per essere competitiva.
Prima la si cede a chi è in grado di gestirla, prima si riduce lo spreco di risorse pubbliche che potrebbero essere altrimenti meglio impiegate a difesa dell’occupazione. Stesso discorso per Mps.
Una banca difficilmente recupera clienti e quote di mercato perse perchè opera in un settore concorrenziale dai prodotti omogenei: prima la si cede, prima si dà un taglio alle risorse pubbliche bruciate dalla banca.
Logica simile nel caso di Ilva: la magistratura ha stabilito che l’azienda, pur rispettando i criteri ambientali europei, è un rischio per la salute pubblica e ha posto gli impianti sotto sequestro, ma autorizzandone la gestione per mantenere l’attività e l’occupazione.
Coniugare però i processi produttivi utilizzati (uso di minerale ferroso), l’occupazione, la redditività, e la tutela dell’ambiente, anche secondo i criteri della giustizia italiana, appare come una missione impossibile.
Così lo Stato, dopo aver cercato invano di cederla a un privato, ha costituito una società a maggioranza pubblica per gestirla, senza però avere i capitali per convertirla in un’acciaieria green. L’unica certezza è l’emorragia di soldi pubblici.
Le crisi infinite
Infine ci sono i tavoli di crisi del ministero dello Sviluppo che inevitabilmente si traducono in soldi pubblici concessi a chi si accolla un’impresa in dissesto, o sussidi a pioggia, tutto allo scopo di mantenere posti di lavoro. Ma creando in questo modo un azzardo morale per chi i soldi dello Stato li riceve: se l’azienda che ne beneficia va bene, si tiene gli utili; ma se va male, a perdere è lo Stato.
Correggere questo azzardo morale con un’intricata procedura, come quella prevista dalla Legge anti-delocalizzazioni, aumenta solo il costo dei licenziamenti, senza impedirli; scoraggia gli investimenti esteri; e non salva le imprese che non sono più competitive.
Sarebbe auspicabile un dibattito serio sull’impiego dei soldi pubblici a sostegno dell’occupazione. Soluzioni nuove, proposte innovative e più efficaci, non mancano di certo. Con ricadute positive su occupazione, redditi e, in ultima analisi, produttività e crescita. Ma temo che non ci sia nella classe politica la voglia, la competenza e la lungimiranza per farlo.
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