I test per capire se possediamo i tratti tipici di un disturbo mentale, e dunque per ipotizzare una diagnosi, si moltiplicano da tempo sui social. Spesso non sono molto seri, ma l’obiettivo finale non è curare (per quello dovremmo andare da uno psichiatra), l’obiettivo è definire il nostro essere. Chiarirlo, dargli dei lineamenti. Come avviene con i test di intelligenza, della personalità, dell’orientamento sessuale (ho visto una persona twittare «in base a un test sono gay al 34 per cento»). Ma anche come avviene grazie alle semplici dichiarazioni di appartenenza a un gruppo umano. Il punto è risolvere il problema che la nostra epoca considera più rilevante di tutti: l’identità. La domanda «ma tu, di grazia, chi sei?». 

Le questioni identitarie

La cultura assillata dall’identità, dalle etichette, dalla biografia prima di tutto dà un’importanza particolare alle caratteristiche che si possono considerare stabili, piantate al centro del nostro essere. Il discorso è politico, ma è anche molto altro. Quando scopri in te una caratteristica provi una specie di sollievo: questo mi definisce, questo dà significato e profondità a una vita che credevo solo difficile.

Al sollievo si accompagna una visione estetica degli aspetti dell’identità: si appiattisce, per forza di cose, la realtà della vita e delle sue difficoltà, ma in cambio si ottiene un quadro del sé che ci sembra esteticamente tollerabile, se non proprio godibile. Una rappresentazione. Del resto, rimanere costantemente scettici rispetto a sé stessi richiede coraggio e un livello di distacco usurante per gli esseri umani. Le etichette dell’identità, inoltre, ci permettono di intervenire in un dibattito salendo su un pulpito. «Parlo in quanto persona che ha queste peculiarità».

Scelta e mercato 

Diverso rispetto al definirci come identità dotata di caratteristiche stabili, è vivere in base alle scelte che facciamo. In questo caso non conta dove e come siamo nati, non conta cosa portiamo dentro di noi. Conta solo come ci comportiamo, quali decisioni prendiamo, come valutiamo le cose, a prescindere dai nostri dati immutabili.

Sì, è vero, si potrebbe dire che molte delle decisioni che prendiamo sono una conseguenza dell’identità, e che dunque l’identità determina le nostre scelte. Così come si potrebbe dire che le scelte fatte hanno, per contro, un impatto sulla nostra identità, che è più malleabile di quanto credessimo.

Ma è possibile immaginare un mondo di scelte pure, slegate dall’identità? Un mondo di puri agenti, agenti che insomma agiscono e basta, immemori del proprio essere, eppure vivi? Per lungo tempo l’economia ha immaginato un’approssimazione di questo mondo, molto imperfetta, ma meglio di altro. Questa approssimazione è il mercato finanziario: il mercato dove il denaro si trasforma in denaro.

Il denaro nella sua purezza è misurabilità, e quello che definisce un attore del mercato è principalmente il risultato che riesce a ottenere in termini di soldi fatti o non fatti. Un meccanismo automatico, che non dà nomi o sigle, ma solo numeri. E questi numeri oggi possono essere buoni, domani possono essere pessimi. Quello che li determina è l’interazione fra le nostre scelte e le scelte degli altri attori. Sullo sfondo, il tema del rischio diversificabile e non diversificabile. Dentro il mercato ciascuno di noi (uomo o macchina che sia) è il risultato di questa interazione: l’investitore, dunque, non ha volto, esiste solo il valore puro e in continua evoluzione. Uomo o macchina, appunto: neanche importa.

Non essere

I mercati però falliscono, e quando falliscono subentra la politica a riportare il respiro pesante dell’identità. Le istituzioni che operano sui mercati inoltre sono centri di potere e gestiscono interessi, il primo dei quali è proteggere la propria esistenza, dunque la propria identità al cubo. Ma anche, i mercati risentono delle mode e delle narrazioni, della popolarità di certi concetti: le cose che piacciono, che sono desiderate in sé, per vanità di puro possesso o per creare il caos.

Anche comportarsi bene, investire in modo etico, prediligendo le aziende con certi obiettivi sociali ed ecologici, riveste gli attori di un’identità precisa che viene pubblicizzata e dichiarata.

Fatte queste premesse, nel bene e nel male resta la sensazione che l’identità sia ineludibile, anche là dove pensavamo di poterla cancellare con la brutalità del denaro misurabile. La domanda oggi politicamente più profonda non è «chi siamo?» ma «come possiamo non essere?». Va bene, da morti possiamo non essere. Ma come possiamo non essere da vivi, non essere vivendo pienamente? In questo “non essere” vivo e vivace si annida una necessità spirituale interessante.

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