Sia chiaro: nessuno scandalo, nessuna colpevolizzazione, ma l’esigenza di comprendere. Quello di Nicola Rossi, economista in origine dalemiano ora reclutato dal governo Meloni per occuparsi di fisco, è solo l’ultimo caso di aperto collaborazionismo con la destra di esponenti politici forgiati nel Pci e nei suoi epigoni.

Non dal governo di una destra qualsiasi ma che – nel caso nostro – sconta due peculiarità diciamo problematiche: a) la matrice post fascista del partito di maggioranza relativa che esprime la premier (come si è inteso, dal rapporto irrisolto con il suo passato); b) il gene berlusconiano, al quale si deve l’imprinting del centrodestra italiano. La cosa merita una riflessione. Come si spiega?

L’illusione della sinistra liberale

Intanto un cenno alle rilevanti issues sulle quali si registrano consonanze: penso alla politica estera informata a un atlantismo dogmatico (con Washington che oggi sembra abbia preso il posto di Mosca ieri), penso a un indirizzo di politica economica acriticamente mercatista, penso a una politica costituzionale che civetta con il bonapartismo decisionista della destra, penso a un certo malinteso garantismo che si spinge sino ad adombrare l’impunità dei colletti bianchi e una giustizia di classe (l’originario garantismo della sinistra affondava le sue radici nella preoccupazione di difendere i dissidenti o i senza potere dalle prevaricazioni di chi del potere abusava), penso complessivamente a una retorica del riformismo che lo fa coincidere con il moderatismo e con una pratica meramente adattiva rispetto allo status quo dei rapporti sociali. L’opposto dell’ambizione a un cambiamento sistemico mirato a un di più di uguaglianza e di giustizia sociale.

I più inclini a una qualche elaborazione ideologica tra costoro amano definirsi “sinistra liberale” (opposta a una sinistra bollata all’ingrosso come massimalista, statalista o autoritaria). Ignorando la circostanza che se è vero che tra la tradizione della sinistra socialista e il liberalismo non si dà opposizione sistemica neppure si può negare una tensione dialettica tra loro. Di natura storica e ideologica.

Di più: mostrando una propensione a fare sconti a una destra – la nostra – che poco o nulla ha a che fare con la cifra di un conservatorismo di stampo liberale. Un conservatorismo liberale al più – per essere oltremodo generosi nel giudizio – minoritario e subalterno nella maggioranza di governo, circoscritto a FI, partito in verità fondato da un monopolista gravato da un colossale conflitto di interessi che solo gli immemori o i daltonici possono avere scambiato per liberale.

Perché dunque la tendenza al collaborazionismo, al quale indulgono in particolare due filiere, quella liberal ex Ds e quella – semplifico – dalemiana? La prima – il cui manifesto fu il discorso di Veltroni al Lingotto – per una vistosa subalternità culturale al neoliberismo in versione blairiana intessuto di un’enfasi sull’innovazione a discapito dell’esigenza della protezione dei ceti sociali più deboli e dalla convinzione più o meno interiorizzata che a depotenziare sino a pregiudicare quella tensione al futuro fosse lo storico legame con il sindacato. Un approccio cui non è estraneo il noto e innaturale fenomeno di una sinistra apprezzata nel ridotto ztl e una enfasi sui diritti civili a discapito dei diritti sociali.

Una malcelata fascinazione per il modello politico e istituzionale americano nonché per il suo sistema dei valori. È significativa al riguardo l’incauta disponibilità a cooperare con la maggioranza sul dossier riforme che palesemente minano l’edificio costituzionale e segnatamente la forma di governo parlamentare, associandosi a iniziative “terziste” ispirate da chi, con toni irridenti, bolla gli oppositori a premierato e autonomia differenziata come “club Bella ciao”. Come se “conservare” i principi costituzionali fosse vieto e ottuso conservatorismo. Alla materia costituzionale non si confà la coppia conservatori-progressisti.

Gli ex togliattiani

La seconda filiera, di matrice togliattiana, si segnala per un crudo realismo che sconfina nello scetticismo, cioè nella convinzione che la sinistra sconti una strutturale condizione di minoranza e che, a responsabilità di governo, essa possa accedere solo grazie a intese con forze moderate di centro e persino di destra. Non a caso non pochi esponenti di tale estrazione – si pensi allo staff di D’Alema a palazzo Chigi – hanno seguito poi un percorso che li ha condotti a destra (specie in FI) o a lucrose attività di consulenza e di lobbing. Taluni addirittura nel campo dell’industria delle armi.

Non esattamente in linea con la sensibilità del popolo della sinistra. O a posizioni ipersecuritarie sull’immigrazione confluite nell’accordo con la Libia. Al netto di questi ultimi profili effettivamente stridenti, il suddetto collaborazionismo con forze conservatrici si presta anche a una lettura oggettiva in chiave storica.

La prolungata “conventio ad excludendum” dal governo nazionale subita dagli ex Pci ha semmai comprensibilmente incoraggiato forme di partecipazione/collaborazione laddove era possibile (essendo escluso il governo) e cioè in sede parlamentare e nelle amministrazioni locali. Insomma un istinto consociativo e persino la tendenza a fare sconti nel giudizio alle “forze antisistema” di un tempo situate nel campo antagonista. Si può leggere in questa chiave l’eccesso di zelo di taluni – penso a Violante – nel patrocinare la pacificazione nazionale con la destra postfascista la cui evoluzione incerta e ambigua oggi sotto i nostri occhi suggerirebbe più di qualche ripensamento.

Gli uni e gli altri – liberal(i) e neotogliattiani – partecipi di una sorta di riflesso condizionato, quasi a volersi fare perdonare l’estremismo giovanile. Gli errori e le intemperanze di allora, nonché il rivestimento ideologico datato e i contenitori politici archiviati (l’ideologia e il partito comunista), non dovrebbero spingere al punto di liquidare come nostalgiche e velleitarie anche l’aspirazione al cambiamento e le istanze di elevazione sociale. Si è quasi indotti a suggerire loro di ripristinare un minimo di orgoglio identitario.

Non per il Nome, non per la Cosa, ma per il tenore e la sostanza di certe meritorie lotte volte alla conquista di diritti civili, sociali e politici di cui la sinistra è stata attore-protagonista. È paradossale che tocchi richiamarlo da parte di chi non viene da quella storia politica. Talvolta mi chiedo se, a fronte dei menzionati deragliamenti di taluni eredi della sinistra ex Pci-Ds, non sia lecito attendersi un di più di audacia riformatrice sulla questione sociale da parte dei cattolici democratici sensibili al magistero di Papa Francesco.

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