Come e più di quanto non sia nella consolidata tradizione della testata, il Corriere della sera non dà mostra di particolare disposizione critica verso il governo. Eppure anche il Corriere economia, in un dossier dall’eloquente titolo, ”Hard discount”, curato da Ferruccio De Bortoli, avanza severi rilievi al concordato fiscale preventivo biennale varato dall’esecutivo.

Cifre e commenti fanno impressione: vantaggi smisurati e iniqui assicurati anche a chi gode di bassa affidabilità fiscale, e, ciononostante, incertezza sull’adesione al concordato stesso e dunque sulle entrate messe in preventivo.

Non un politico di sinistra, ma Innocenzo Cipolletta, si è chiesto «a quando la rivolta fiscale di chi paga le tasse?» e Vincenzo Visco ha parlato di «scandalo e indecenza» senza pari «nella storia fiscale italiana degli ultimi decenni».

La resa dello stato

Il fisco è terreno paradigmatico della sfacciata demagogia della destra e tabù per la sinistra. Vogliamo parlarne? L’ultimo decreto correttivo in attuazione della delega fiscale si spinge oltre ogni limite.

Già scontavamo una clamorosa differenza di trattamento tra lavoratori dipendenti e autonomi (con differenziali nelle aliquote a parità di reddito di venti-trenta punti percentuali), condoni e sanatorie à gogo, innalzamento al limite del contante.

Poi l’istituto del concordato che, di suo, rappresenta la resa dello stato a contribuenti che non dichiarano il giusto (altrimenti non concorderebbero); come non bastasse, ora uno sconto che, secondo il calcolo del Sole 24 Ore, può raggiungere il 76 per cento dell’imposta dovuta sul reddito aggiuntivo concordato rispetto al 2023.

Uno sconto – merita notarlo – deciso dal governo dopo avere riscontrato un numero di adesioni sensibilmente al di sotto delle previsioni: a riprova che una larga fascia di contribuenti ha imparato che può fare sempre conto su una sequela di “definizioni agevolate” (eufemismo!) a cascata.

Dunque, altra enorme riduzione dell’aliquota sul maggior gettito concordato, riapertura dei termini della rottamazione, abbassamento dell’acconto. Festa grande per i soliti furbi a fronte dei fessi che versano al centesimo. Complice la disperata caccia alle risorse di un ministro – intendo Giancarlo Giorgetti – dipinto come uno statista, del quale inspiegabilmente si sottace la indefettibile fedeltà leghista (il partito più corrivo in materia) e che, vedi un po’, si sceglie una ragioniera dello stato di sua stretta fiducia.

Si aggiunga la definitiva cancellazione del redditometro incautamente prospettata tempo fa da un viceministro, Maurizio Leo, subito sconfessato dai suoi. Cioè l’archiviazione di uno strumento conoscitivo, magari perfettibile, ma prezioso per chi davvero volesse contrastare evasione ed elusione.

Affossato con parole enfatiche da tutti e tre i partiti della destra che, indistintamente, fanno a gara a chi sia più sollecito e generoso nel fare il verso agli evasori. Brandendo il più diversivo e ipocrita dei messaggi: la retorica della guerra ai “grandi evasori”. Come se i dati, arcinoti, non evidenziassero che il problema si annida anche e soprattutto nella sterminata platea dei piccoli evasori. Sommando i quali si raggiunge la celebre stima dei cento miliardi di mancate entrate.

Le destre e il fisco

Come sorprendersi? Due sono le cifre del rapporto delle destre con il fisco: 1) la programmatica propensione a “comperare il consenso” di un pezzo della sua “constituency“ sociale ed elettorale mettendo il costo a carico del debito pubblico; 2) la “cultura” (?) dello stato come bestia famelica che opprime cittadini e imprese. Eloquenti le celebri metafore berlusconiane che hanno fatto scuola (sul tema è da tempo conclamata l’egemonia della destra): le «mani nelle tasche degli italiani» e il «pizzo di Stato» (cfr. Giorgia Meloni).

Due cifre, teoriche e pratiche, agli antipodi di una genuina cultura liberale che, semmai, prescriverebbe una concezione severa e non anarco-individualista della libertà, il rispetto delle regole, la gestione rigorosa delle risorse pubbliche e degli equilibri di bilancio.

Il rapporto con il fisco è una delle più eloquenti cartine di tornasole della natura e della cultura della maggioranza di governo. Anche sotto questo profilo è sorprendente come settori dell’establishment diano credito alla leggenda della evoluzione in senso liberale delle destre nostrane.

Un tabù a sinistra

Ciò detto, a sua volta la sinistra deve vincere il tabù del fisco. Non esorcizzarlo. L’alternativa, culturale prima che politica, passa anche di lì. Non ci si può limitare a invocare più risorse per ogni voce del welfare senza responsabilmente prospettare come e dove reperirle.

I titoli sono chiari e, in certo modo, obbligati: fedeltà fiscale, effettiva lotta all’evasione, progressività del sistema (chi ha di più paghi di più) in conformità alla Costituzione, contributi di solidarietà da parte dei detentori di grandi patrimoni (di recente lo ha raccomandato il G20 delle Finanze a Rio), una ragionevole tassa di successione. Un tributo, quest’ultimo, notoriamente ascrivibile a una cultura liberale, sensibile all’esigenza di un qualche correttivo alla disparità delle condizioni di partenza se non al principio dell’uguaglianza delle opportunità.

Le tasse non saranno bellissime, ma sono uno dei cardini del patto sociale e uno strumento privilegiato delle politiche redistributive. Sono convinto che non sia impossibile fare persuasi i cittadini che vi sia un’alternativa all’idea malsana e qualunquista del fisco quale rapina di stato.

Certo, a due condizioni: che chi, pro tempore, rappresenta lo stato mostri di avere visione e di vantare affidabilità. Visione di una società più sicura e pacifica perché solidale. Affidabilità nel trasmettere l’idea di non inseguire demagogicamente un facile consenso. A discapito degli onesti, dei meno abbienti e delle giovani generazioni. Sicuri che, se credibilmente interpellati, essi non possano farsi maggioranza? Una sfida, d’accordo, ma per meno di questo non avrebbero senso una sinistra o anche semplicemente lo schieramento democratico di un paese moderno e civile.

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