Il governo Netanyahu, composto dall’estrema destra nazionalista e messianica, vuole ridisegnare l’assetto della regione. E per perseguire il suo scopo deve mettere nel mirino anche l’Onu, considerata un inutile orpello che ostacola i suoi piani
I reiterati attacchi israeliani all’Unifil in Libano non sono né casuali – come ha riconosciuto esplicitamente anche il ministro della Difesa italiano Crosetto – né esito di un’autonomizzazione nella catena di comando dell’Idf, pur in talune circostanze non indenne da episodi di questa natura.
Non si apre il fuoco su una missione decisa, pur diciotto anni fa e in altro contesto politico e militare, all’unanimità e con il consenso delle parti in causa, dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite. Dunque l’obiettivo è chiaro: ridislocare Unifil in luoghi che non costituiscano un ostacolo alle operazioni militari di Tsahal in territorio libanese o, se necessario, provocarne il ritiro.
La nuova dottrina di Israele
Dopo lo shock del 7 ottobre Israele si è dato una dottrina strategica che, tra i suoi capisaldi, ha il principio “Nessun nemico ai confini”.
Dottrina che prevede l’eliminazione di forze ritenute una minaccia sia mediante il loro annientamento – a partire dalla messa fuori gioco dei loro vertici politici e militari – sia mediante l’istituzione di fasce di sicurezza, estese in profondità, presidiate da proprie truppe e non da forze terze: tanto più se, come nel caso libanese, inviate sul terreno nel quadro di una missione Onu, organizzazione ritenuta ormai ostile a Israele. Insomma, fasce di sicurezza che, contrariamente a quella sancita dalla risoluzione 1701 dopo la guerra dei Trentaquattro giorni del 2006, siano destinate, nei fatti, a essere annesse. Si tratti della porzione di terra che nella Striscia giunge sino a Wadi Gaza o dei territori che dalla Linea Blu vanno sino al fiume Litani, sin qui controllati, come tutto il sud del Libano, da Hezbollah.
È necessario partire da una simile presa d’atto per interpretare la condotta di Israele anche in queste circostanze. Il governo guidato da Netanyahu, il cui tono è dato dall’estrema destra nazionalista e nazionalreligiosa messianica, ha scelto sin dall’8 ottobre non solo di colpire chi lo attacca, come i proxies dell’Iran e il regime della Repubblica islamica che li sostiene, ma anche di ridisegnare l’intero assetto della regione, ritenuto ormai non solo strategicamente disfunzionale, ma rischioso.
A questo disegno politico e militare incentrato sul medio e lungo periodo si sono sovrapposte altre esigenze. Quella personale di Netanyahu di proseguire la guerra a oltranza nell’intento di lavare l’onta del 7 ottobre e recuperare il consenso che gli consentisse di non uscire di scena dopo l’inatteso attacco di Hamas, il cui impatto è stato determinato da una colpevole sottovalutazione da parte delle forze di difesa e intelligence che dipendevano dal suo governo. Quella dei falchi delle due destre che, l’una per motivi di sicurezza nazionale, l’altra per motivi di natura religiosa, puntano alla nascita del Grande Israele.
L’Onu e il sogno biblico
Costruzione statuale di matrice biblica dagli indeterminati confini che, in particolare, i movimenti messianici, parte integrante e rilevante della constituency di governo, estendono alla ricolonizzazione di Gaza e all’occupazione di territori del nord libanese come prolungamento dell’Alta Galilea, oltre che all’annessione della Cisgiordania. Dunque non solo eliminazione di Hamas e Hezbollah, e, se il grande gioco lo consentirà, anche del regime iraniano che li sostiene, ma anche nuove annessioni, a sud come a nord. E, naturalmente, a est, sino al Giordano, rendendo impossibile, a prescindere da chi dovrebbe guidarlo, la nascita di uno stato palestinese degno di tal nome.
È chiaro che un simile disegno troverebbe un ostacolo nelle Nazioni unite. Per quanto, senza un ordine internazionale retto da un accordo minimale tra grandi potenze, il Palazzo di Vetro sia ridotto a poco più di un guscio vuoto – come è evidente anche nella guerra in Ucraina – l’Onu resta pur sempre un’istituzione internazionale dalla quale possono emergere risoluzioni, pronunciamenti dell’Assemblea, decisioni di suoi organi – come quelle pur non vincolanti della Corte internazionale di giustizia dell’Aja che ha dichiarato illegali gli insediamenti in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, e dunque l’annessione di fatto dei Territori occupati – ritenuti ostili da Israele.
Le cannonate dei Merkava a Naqoura sono materialmente rivolte all’Unifil, ma il bersaglio sono le Nazioni unite. Tanto più che quei tiri erano stati preceduti da un atto politico senza precedenti: la decisione di Israele di considerare il segretario delle Nazioni unite «persona non grata», presa di posizione che impedisce a Guterres di recarsi in Israele.
Una scelta che scava un profondo fossato tra Onu e Israele che, nel corso del conflitto a Gaza, aveva già messo nel mirino non solo i membri palestinesi dell’Unrwa che risultavano affiliati a Hamas, o coinvolti nell’attacco del 7 ottobre, ma lo stesso operato dell’agenzia delle Nazioni unite che da sempre assiste sul terreno umanitario i palestinesi: anche nelle drammatiche circostanze di una guerra come quella attuale che ha prodotto enormi sofferenze tra i civili.
Nei confronti del mondo l’atteggiamento del governo Netanyahu è sintetizzabile nella formula “Aiuti concreti, nessuna interferenza”. Tel Aviv non vuole che, attraverso il Consiglio di sicurezza, Russia o Cina, sensibili alle ragioni dell’Iran e impegnate nel contenimento politico degli Usa, possano mettere bocca nel conflitto. Da qui la scelta di andare allo scontro aperto con le Nazioni unite. Posizione emblematicamente rappresentata dall’inaudito discorso di Netanyahu all’Assemblea della Nazioni unite, definita sprezzantemente «palude antisemita».
L’ostacolo da rimuovere
Se si mettono in fila i momenti di tensione intercorsi nell’ultimo anno tra Tel Aviv e le rive dell’Hudson, è palese che, per l’attuale governo israeliano, l’Onu non è solo un inutile orpello, ma un ostacolo alla propria strategia politica e militare. Poco importa a Netanyahu se un simile atteggiamento accentua la crisi della residua capacità d’intervento delle Nazioni unite e se, in tal modo, si affonda un ordinamento internazionale che, come sempre nei momenti in cui sovrano è chi decide nello stato di eccezione, mostra i suoi limiti.
Il premier è un deciso fautore del principio “Contare su sé stessi” e, per marciare sulla via del fatto compiuto, a Gaza come in Libano, intende sfruttare sino in fondo la paralisi dell’America prigioniera delle sue contraddizioni interne e delle dinamiche della corsa per la Casa Bianca. Se per sconfiggere Hezbollah e ricacciarlo oltre il Litani sarà necessario mandare in frantumi quel che resta dell’ordinamento internazionale, Bibi lo farà.
Convinto che, a giochi fatti, molti dei suoi critici attuali lo ringrazieranno per avere fatto il lavoro sporco in Medio Oriente anche per loro conto. Quanto alle macerie lasciate sul terreno, ritiene non saranno un problema suo. Almeno sino a quando l’America terrà gli occhi chiusi. Quei colpi di Merkava rivolti all’Unifil parlano di tutto questo.
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