Gli strali degli autoproclamatisi riformisti – al meglio, conservatori illuminati – contro la svolta a sinistra del Partito democratico. Eppure, è perfettamente razionale puntare sulle classi popolari. Tentando di riportare alle urne una quota di astenuti
La nutrita schiera di antipatizzanti del Pd, sostanzialmente i nostalgici di Renzi e di un partito liberal-centrista, è partita all’assalto di Elly Schlein perché ha osato attaccare uno dei loro totem sacri, il Jobs Act.
In questo loro atteggiamento si intravede una sempre meno celata simpatia per il primo ministro, Giorgia Meloni.
Basti pensare al soccorso (giallo?) che molti autoproclamatisi riformisti – in realtà, al meglio, conservatori illuminati, quando non veri e propri controriformisti – stanno portando al progetto di premierato, fingendo di non capire o, ancora più grave, non capendo, la portata politica, più ancora che costituzionale, di questa proposta: fare di Fratelli d’Italia e della sua leader il perno del sistema politico assumendo l’aura dei costituenti che soppiantano la vecchia carta antifascista.
A ogni modo, per una ragione o l’altra, il Pd è nel mirino per la sua svolta a sinistra. In effetti, molti non si rassegnano ad avere un partito che ha adottato una agenda sociale diversa da quella renziana. E continuano a tessere gli elogi di quella stagione senza mai ricordare che a causa di quella agenda il partito, alle elezioni del 2018, precipitò al livello più basso mai raggiunto nella sua storia.
L’intento dei riformisti è quello di far perdere ancora punti al Pd sospingendolo lungo quella strada? Poiché non si vuole pensare male e ritenere che proprio questo sia l’obiettivo strategico di questa componente, e cioè portare un Pd in ginocchio alla corte del fiorentino, si deve piuttosto pensare che alla base del furore anti Schlein vi sia una distorsione ottica, una incomprensione delle dinamiche politico-elettorali degli ultimi tempi.
Due sono i fattori che molta opinione pubblica, anche attenta, tende a sottovalutare: l’aumento dell’astensione e la mobilità elettorale. Un breve riepilogo per rinfrescare la memoria. Nel 2013 il M5s passò da zero al 25 per cento, il Pd perse 8 punti e Forza Italia 16.
Nel 2018 il Pd lasciò sul terreno altri 7 punti e Forza Italia 8, mentre il M5s e Lega andarono avanti rispettivamente di 7 e di 13 punti. Le ultime consultazioni, infine, hanno visto la conquista di 20 punti da parte di Fratelli d’Italia e il tonfo di pari misura dei 5 stelle.
Questa irrequietezza dell’elettorato si è associata con una progressione costante dell’astensione, arrivata a superare un terzo degli elettori nel 2022.
Questi due dati, mobilità elettorale e fuga dalle urne, obbligano ogni partito a una duplice azione: rinserrare le proprie file per evitare ulteriori passaggi all’astensione, e attrarre o recuperare elettori potenzialmente ben disposti.
Se il Pd vuole (cercare di) uscire dalle secche in cui si trova, non ha altra scelta che puntare su elementi mobilitanti che rafforzino – o almeno finalmente delineino – la sua immagine, e abbiano un alto “rendimento”.
Dato che dal 2013, e con una accelerazione fortissima nelle ultime due consultazioni, il Partito democratico ha perso elettori delle classi popolari, è perfettamente razionale che cerchi di riconquistarle puntando su una agenda indirizzata ai ceti sottoprivilegiati, di cui occupazione, salario e welfare costituiscono capisaldi dell’azione di una forza di sinistra, ma non, comprensibilmente, di forze centriste.
Solo i partiti che hanno enfatizzato la connotazione socialista e pro labour – Psoe spagnolo e Spd tedesca – hanno registrato successi.
E comunque il Pd avrà migliori chance se riuscirà a riportare alle urne una quota di astenuti, perché questi molti non votanti appartengono a ceti popolari, disaffezionati o delusi da politiche distanti dal loro sentire e dalle loro domande.
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