Firmerò il referendum sul Jobs Act. Sono sotto gli occhi la sofferenza per la precarietà, per i ricatti sul bisogno, sulla maternità. O l’umiliazione di un lavoro povero, e sempre più povero per donne e giovani. Fino allo scambio indecente tra i profitti da cumulare e l’insicurezza per chi deve sopravvivere e muore asfissiato o per troppa fatica. Potrebbe esserci un brutto tempo per infermieri e medici che in quel “Dalla pandemia usciremo migliori” avevano creduto. Per gli straordinari Seydou e Moussa di Garrone o per chi pulisce gli uffici all’alba, ma appena si accendono le luci resta nel buio dello sfruttamento.

La mia modesta firma al referendum è più cose. È il modo per dire che quelle sofferenze le vediamo, che nel nostro futuro i diritti restano la morale della storia. La politica è anche simboli, qualcosa di più della vivisezione di una legge che non ha dato tutti i frutti attesi da chi l’ha voluta. Lo so, un referendum non basta. La Cgil lo ha scelto nella sua autonomia mentre il conflitto si fa sempre più aspro. Firmerò convinta che senza sindacati radicati, popolari il paese e l’Europa corrono rischi seri, ed è la ragione per una nuova e più larga sindacalizzazione come elemento di una democrazia credibile per quelle periferie disancorate dalla fiducia e trascinabili nell’astensione o nella paura.

Ero tra quanti hanno criticato il Jobs Act nella direzione del Pd, e non l’ho votato alla Camera. Quel dissenso mi pesò. Però pensavo che abolire l’articolo 18 sarebbe stata una ferita su una tela già lisa nel legame con una parte del mondo del lavoro senza la quale l’etica pubblica e la tenuta unitaria dell’Italia si assottigliano. Sono passati nove anni, abbiamo vissuto il Covid, la tragedia delle guerre, il succedersi dei governi. Il Pd ha consumato stagioni su cui ciascuno ha i suoi pensieri, e continuo a credere che le differenze completino i limiti di tutti e tutte. Guardare avanti ci lascia il dovere di agire su quello sciupio umano che è lo svilimento del lavoro onesto a partire dalla fatica manuale, della scienza, dell’appartenenza alla fabbrica che la delocalizzazione ti ha portato via mentre si allargano le illegalità e ritorna la questione morale.

La destra contrasta i diritti e le libertà. Si può tornare indietro, a quando profitti vergognosi e capi obbedienti decidevano dei destini, della salute, delle carriere. Ne abbiamo qualche anticipo, i manager di Stato a far da comparse sul palco della premier, la censura alla Rai, tasse come pizzo, bonus come mance, le manganellate agli studenti. Si accaniscono sui fragili sbandierando il premierato e l’autonomia in una riscrittura della storia dove bersaglio sono la libertà e l’indipendenza delle donne. Anche per questo dico sì alla legge di iniziativa popolare sul salario minimo, e nella mia Lombardia per la sanità pubblica.

Per le stesse ragioni mi ha fatto piacere la firma di Elly Schlein al referendum. L’allora leader del Pd disse che Sergio Marchionne aveva fatto per i lavoratori più di tutti i sindacati. Pure con la stima verso l’uomo, perché scegliere una cesura tanto offensiva? Prima di lui altri hanno perseguito la “disintermediazione” con un obiettivo: senso critico, intellettuali, sindacati, forse persino lo stesso parlamento erano impicci per la governabilità.

Erano ostacolo a un’ansia di legittimazione verso altri poteri interpreti di un’idea del mercato utile ai loro interessi ma lontana dal bene comune, come Stellantis e paradisi fiscali confermano.

Questo nostro presente stretto tra guerre di trincea e intelligenza artificiale, tra chi scava nei rifiuti per mangiare e chi vuole pagarsi un viaggio su Marte, ripropone il tema di un pensiero sul mondo per unire chi sceglie di stare dalla parte giusta e magari sognare uno sciopero globale per i diritti umani, un lavoro considerato e la dignità.

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