Due anni di governo Meloni. Che cosa è cambiato nell’azione della leader e del suo partito? E con quali conseguenze per le istituzioni democratiche e per lo sviluppo del paese? Giorgia Meloni si è trovata in mezzo al guado.

Deve scegliere se muoversi in direzione di un modello di partito liberal-conservatore europeo, sull’esempio della Cdu tedesca, o se restare alla fine legata alle esperienze neo-populiste come quella dell’amico Orbán. I rapporti con l’Europa e la gestione dell’economia la spingono verso l’approdo liberal-conservatore, ma l’ identità del suo partito rema in direzione opposta. Quella più rischiosa per il paese.

Sul piano europeo, i primi passi della presidente hanno sorpreso per la rapidità con la quale si è aperta al rapporto con le istituzioni e con i leader dell’Unione. Ha compreso che le sorti dell’economia italiana sono fortemente condizionate dal rapporto con la Ue (Pnrr, nuovo Patto di stabilità, ecc.), ma non ha voluto spingersi sul piano concreto della condivisione di passaggi istituzionali cruciali, come per esempio quelli relativi alla scelta del presidente della Commissione e alla sua composizione. Il risultato è un isolamento dell’Italia nella Ue – al di là dell’attivismo mediatico dei sorrisi e degli abbracci – che ne indebolisce la capacità d’influenza e potrà avere conseguenze negative sul piano interno. Ma era troppo ridotto il tempo per metabolizzare un cambiamento di alcuni tratti portanti dell’identità del partito: il nazionalismo e il sovranismo.

Essi si concretizzano nell’aspra critica portata per anni alla Ue come minaccia alla nazione da parte di “élite globaliste” volte a favorire l’occupazione franco-tedesca dell’Italia. Partendo da queste basi è difficile realizzare una vera e propria inversione di rotta richiesta per una più efficace integrazione con l’Europa. Da qui la spinta a restare in mezzo al guado.

La politica europea ha dunque stimolato ma ha reso anche difficile l’allontanamento dal populismo sovranista. Lo stesso è accaduto nella politica interna. In questo caso è anzitutto la difficile gestione dei problemi dell’economia che spinge a mettere da parte le roboanti promesse elettorali. Il governo Meloni sembra sposare una prudente – e in parte inattesa – cautela nella gestione dei conti pubblici (significativo il blocco del Superbonus e il ridimensionamento del Reddito di cittadinanza), confermata dai primi segnali sulla prossima legge di Bilancio.

Si vogliono così rassicurare i mercati esibendo il volto responsabile di un partito conservatore europeo. Ma fino a un certo punto. Infatti, il governo Meloni si preoccupa molto delle ricadute elettorali delle promesse mancate per i vincoli legati ai conti pubblici, e per farvi fronte si muove in due direzioni che lo riportano al quadro populista.

La prima, sul terreno economico, ha l’obiettivo di rafforzare la coalizione sociale che sostiene il governo. Ferma restando l’attenzione ai conti pubblici, si prendono misure che sul piano fiscale e della spesa riallocano risorse a favore dei gruppi sociali che più sostengono il partito e la coalizione. Si tratta di interventi che sul piano fiscale riducono la progressività (flat tax) e privilegiano nettamente i lavoratori autonomi e le partite iva; inoltre favoriscono con molteplici condoni gli evasori. Sul piano della spesa si rinviano le promesse sulle pensioni e le misure di contrasto della povertà, mentre crescono sussidi di varia natura e dubbia utilità alle imprese e ai lavoratori autonomi.

La seconda direzione riguarda l’avvio di interventi non costosi sul piano economico che danno attuazione a promesse elettorali e consentono anche di spostare l’attenzione su misure diverse da quelle economiche per attenuare la reazione dei delusi dalle mancate promesse: anzitutto il contrasto all’immigrazione, e poi la sicurezza e l’ordine pubblico, la giustizia, l’informazione e una riforma costituzionale populista come il premierato. Sono tutte misure molto discusse e preoccupanti per il loro impatto sulle istituzioni democratiche e lo stato di diritto.

Ma davvero non ci sono reazioni sul piano del consenso come sembrano indicare i dati elettorali? In realtà non è così. I sondaggi segnalano, al di sotto della stabilità del consenso elettorale, un progressivo calo di gradimento per il governo e la premier, particolarmente vistoso tra coloro che sono in condizione economica bassa e medio-bassa ( si veda il sondaggio presentato sul Corriere della Sera da Nando Pagnoncelli).

Se dunque scontento e disaffezione non si manifestano ancora sul piano elettorale, ciò è dovuto per molta parte alla mancanza di una proposta credibile delle forze di opposizione.

© Riproduzione riservata