Ci troviamo al cuore della crisi della democrazia. Una crisi che ha due volti. Da un lato, la sfiducia delle persone nella capacità dei partiti, dei sindacati, degli strumenti della deliberazione e decisione politica di far fronte alla complessità del presente e all’imprevedibilità del futuro. Dall’altro, governi autoritari riducono fino a soffocare gli spazi di confronto e di dissenso
Quale sicurezza? E la sicurezza di chi? Sono domande che da decenni orientano la critica all’approccio securitario nel governo dei fenomeni che provocano allarme sociale. Come ha ricordato Tamar Pitch su questo giornale, è almeno dagli anni Novanta che la parola “sicurezza” ha abbandonato l’area semantica della protezione sociale, per finire a indicare la sterilizzazione dei territori urbani dal degrado, il contrasto alla microcriminalità, la sorveglianza dei marginali.
Il moltiplicarsi di interventi e “pacchetti” che negli anni hanno preso di mira persone migranti e povere ha risposto alla logica di immunizzare i cittadini e le cittadine “per bene” – gli inclusi – dai rischi derivanti dalla crescita delle diseguaglianze sociali.
Il disegno di legge che porta la firma dei ministri Matteo Piantedosi, Carlo Nordio e Guido Crosetto segna però un salto di qualità anche rispetto al passato, già piuttosto inglorioso. Perché solo la retorica governativa, e dei media che se ne fanno portavoce, può azzardarsi a giustificare i più di venti interventi punitivi contenuti nel testo – con tredici nuove fattispecie di reato – come norme a protezione della sicurezza dei cittadini.
Potere dal volto cattivo
Nei fatti, le “vittime” a cui il ddl intende dare protezione sono le imprese che violano i diritti dei lavoratori, i costruttori di grandi opere, i proprietari di edifici in stato di abbandono. Mentre il beneficiario finale delle misure pare il governo stesso, che – punendo ogni forma di protesta, anche la disobbedienza non-violenta – ambisce a mettersi al riparo dal dissenso.
Senza trascurare il nuovo giro di vite sul carcere e i centri di permanenza per il rimpatrio, dove le nuove pene mirano a chiudere la bocca a chi si ribella, anche solo mediante la resistenza passiva agli ordini. E poi l’ennesima norma “manifesto” contro le “borseggiatrici” – s’intende, rom – da anni al centro di politiche di costruzione del consenso di stampo razzista e classista. Un governo, insomma, «forte con i deboli e sodale con i forti», come ha scritto Emiliano Fittipaldi.
Nei decenni in cui l’ossessione della sicurezza è riuscita a conquistare i cuori e le menti, la contropartita del controllo sociale crescente era, per gli “inclusi”, la promessa di benessere derivante dalle magnifiche sorti e progressive del mercato globalizzato. Oggi, è la crisi di quella promessa, la perdita di capacità seduttiva di un ordine dominato da parole come “proprietà”, “merito”, “responsabilità”, a favorire l’ascesa di un potere dal volto cattivo. Un potere apertamente ostile alla “libertà”, se intesa nel suo significato politico e sociale; favorevole invece alla “libertà” neoliberale degli attori economici.
Un ordine ingiusto
L’indebolimento del welfare e della protezione del lavoro, l’aumento delle diseguaglianze, la crescita di insicurezza sociale e ansia per il futuro minano il consenso “spontaneo” verso il paradigma della competizione e del “fare da sé” che ha dominato il discorso politico nell’ultimo mezzo secolo, o quasi. E la risposta autoritaria, apertamente repressiva, del governo appare come l’ultimo tentativo di difendere un ordine ingiusto dalle inevitabili contestazioni che produce.
Se è vero che una parte della popolazione sembra avere fiducia nel fatto che un potere “forte” possa mettere tutti, anche gli ultimi, al riparo dalle molteplici “crisi” che gravano sul presente, questo tempo di ritorno della storia, con le sue contraddizioni, ci ha messo anche di fronte al ritorno di conflitti: dalle lotte ambientali a quelle per il lavoro, dalle mobilitazioni femministe a quelle antirazziste.
Ed è la paura di insorgenze radicali, di mobilitazioni che non si accontentano di una grammatica riformista delle rivendicazioni, di proteste che chiedono a voce altra “una vita bella”, come recita uno slogan del collettivo della ex-Gkn – è questa paura, forse, a spiegare il passaggio di scala verso l’impiego apertamente repressivo, e a tutto campo, degli strumenti di polizia e del diritto penale.
Ci troviamo al cuore della crisi della democrazia. Una crisi che ha due volti. Da un lato, la sfiducia delle persone nella capacità dei partiti, dei sindacati, degli strumenti della deliberazione e decisione politica di far fronte alla complessità del presente e all’imprevedibilità del futuro, porta consenso a esperimenti di governo di stampo sempre più apertamente autoritari. Dall’altro, simili governi riducono fino a soffocare gli spazi di confronto e di dissenso. Abolendo, con il conflitto sociale, anche uno degli ingredienti vitali per la sopravvivenza della democrazia stessa.
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