I vincitori della fase attuale -Turchia, Arabia Saudita e Israele- possono intendersi, dividendosi i compiti e le responsabilità allo scopo di stabilizzare un Medio Oriente molto meno arabo del passato. Gli americani potranno fare da garanti, almeno finché l’Iran si leccherà le ferite e Siria e Iraq rimarranno da ricostruire
Questa fase della contesa tra imperi è stata vinta dagli “ottomani”: la Turchia riprende il controllo della Siria dopo aver da tempo messo sotto sorveglianza il nord dell’Iraq. I “persiani” d’Iran perdono la continuità territoriale che aveva permesso loro di spingersi fino al Mediterraneo, un’antica aspirazione.
Il nuovo leader siriano, al Joulani-al Sharaa, è stato posto sul trono di Damasco da Ankara. Tuttavia mantiene le sue ambizioni islamiche fondamentaliste e nazionali. Come ha scritto Gilles Kepel, Joulani sa che «Damasco val bene un sermone» e si applicherà a dare dimostrazione di pragmatismo, soprattutto agli occidentali perché levino le sanzioni (tra cui il severo Ceasar Act americano).
Ha già chiesto che vengano rese disponibili le riserve finanziarie siriane bloccate all’estero (Russia inclusa). Per adesso l’Unione Europea rimane fredda sul tema, mentre per quanto riguarda gli Usa si attende la presa di possesso di Donald Trump malgrado le aperture dell’amministrazione Biden.
La Turchia si sta facendo avvocata della nuova Siria che immagina il più possibile formattata secondo la propria versione dell’islam “fratelli musulmani”. Difficile dire se egli ex salafiti di al Qaeda riusciranno ad applicare tale modello o ne creeranno uno del tutto nuovo. La seconda ipotesi sembra tuttavia la più probabile e a Damasco vedremo nascere un nuovo prodotto religioso islamico, un misto tra post-jihadismo e post-democrazia.
Dal canto loro i curdi moltiplicano i segnali distensivi, sperando che i 900 soldati americani non li abbandonino in mani turche. Un tema geopolitico di grande rilevanza riguarda la relazione tra Israele e la Turchia: tutto lo spazio creato dal ritiro iraniano potrebbe essere occupato dal “sunnismo turco-membro della Nato”.
Per Gerusalemme non è la stessa cosa avere a che fare con Ankara rispetto al defunto asse della resistenza sciita. Non è da escludere che la prossima scossa tellurica riguardi Teheran: il fallimento della politica aggressiva anti-sionista pesa su un sistema invecchiato e impopolare.
La ribellione delle donne dura molto più del previsto, malgrado la repressione. Gli ayatollah e la guida suprema hanno portato il paese in un vicolo cieco e forse un pezzo del regime vorrà liberarsene e riprendere la mano. Anche se gli israeliani hanno dimostrato di aver facilmente “bucato” la rete di protezione e sicurezza iraniana, non possono trasformarsi improvvisamente in nuovi amici.
È piuttosto Ankara, che studia ogni mossa interna a Teheran, a poter invece sostenere attivamente un ribaltamento con una qualche forma di partecipazione e sostegno. Resta da vedere che posizione prenderanno l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, non felici di osservare il Qatar filo-turco tornare in partita. Lo scambio può avvenire su Gaza: se Benjamin Netanyahu cederà la Striscia ai sauditi, Riad potrà rientrare sul campo di gioco mediorientale con un successo.
Trump – molto amico del principe ereditario saudita- potrebbe sostenere tale ipotesi per ricreare un equilibrio nella regione. Tutti gli attori geopolitici sono d’accordo almeno su una cosa: nessuno deve diventare egemone rispetto agli altri, nemmeno Israele. Per questo occorre bilanciare le influenze contrapposte in un continuo negoziato “competitivo-cooperativo” tra pari.
I vincitori della fase attuale -Turchia, Arabia Saudita e Israele- possono intendersi, dividendosi i compiti e le responsabilità allo scopo di stabilizzare un Medio Oriente molto meno arabo del passato. Gli americani potranno fare da garanti, almeno finché l’Iran si leccherà le ferite e Siria e Iraq rimarranno da ricostruire.
© Riproduzione riservata